24 – LEI
Preda presa!
Qui si parla di bestie e di menti in frantumi. Di presunte vittorie. Si riflette (a stento) di suono, parola, storia. Il poema ha in LEI una delle sue arie maggiori. Una resa dei conti. Eccola: guardiamole gli occhi. La Bestia senza più equivoci: è lei. Tutto sembra chiaro, infatti: è incredibilmente complesso. Per questo proviamo a partire dalla fine, dagli ultimi quattro versi.
“ lei. / Soltanto ed inequivocabilmente / lei, la Bestia / (l’ónoma) che niente arresta.”
Terzultimo verso. “Soltanto ed inequivocabilmente”.
Non lascia il minimo alone di dubbio. L’endecasillabo perfetto scolpisce l’inizio con una netta esclusione di qualsiasi altro esito e lo rafforza con un avverbio del peso di ben otto sillabe che risuonano come otto colpi da una tonnellata ciascuno: i-ne-qui-vo-ca-bil-men-te.
Certezza assoluta.
Così saldi in ciò che è certo, potremmo anche illuderci e rilassarci, far largo alla tregua della vittoria nel petto: la caccia è finita, la bestia è presa. “È lei. / … / lei, la Bestia”. Tiriamo il fiato.
Guardiamola in gabbia. Lì, tra quelle due parentesi nel verso dopo “(l’ónoma)”. Non era poi ‘sto gran che. Che la Bestia fosse la parola stessa, non è poi più di tanto una scoperta: lo si intuiva o sapeva già bene da LA PREDA o da IO SOLO, dove lei se ne stava rintanata, inselvata tra altre parentesi, come un nodo in gola, o nella nostra voce, o dietro la parola.
Così certi di averla presa, deposte le armi, abbassata la guardia, potremmo anche non accorgerci se (“falsamente mastina”) ci azzannasse proprio ora, di scatto, a tradimento, all’ultimo verso.
Ultimo verso.
Diviso in due: “(l’ónoma) che niente arresta.”
Nella prima parte appare lei, la Bestia (“l’ónoma” ossia la parola, il nome). Ingabbiata anche graficamente, visivamente, tra le parentesi.
La prima parte dell’ultimo verso è una soffiata: la Bestia che cerchiamo è definitivamente la parola: qui è detta “ónoma” col suo nome ancestrale, antenata di sé stessa, sorgente e foce. Quel suono o segno, udibile o leggibile, dove nasce e muore il suono della nostra voce. Quel luogo fisico-verbale e quel tempo fisico-verbale che diede (dà, darà) inizio e fine a tutto.
L’ónoma.
Il verbo. Il suono. Emanazione di quasi tutte le deità della storia narrata dall’uomo: per dare inizio a qualsiasi Storia qualcuno nomina, dice o canta: Dio, il Verbo, le Muse, l’Angelo… Poi viene il mondo, i fenomeni, il resto. Tutti le divinità parlano e ascoltano. Il suono e la parola sono percepibili dai viventi, anzi proprie esclusivamente dei viventi. (Sospetto: …forse per questo i morti avevano “orecchi d’ortiche”?).
Soltanto dei vivi sentiamo ancora la parola. Chi muore non perde subito il corpo: perde subito la voce. La sua gola sarà per sempre muta. Possiamo conservarne il nome. Ma non avrà mai più parole. Suono ed esistenza sono associati: si autocertificano. Chi dice esiste e viceversa. Dio compreso.
Col tempo e l’umano ingegno avremo il suono anche in assenza, la voce di chi non esiste più del tutto o esiste ma non qui-adesso; riproduzione tecnica, artificio, incisione, traduzione in onde, numeri, impulsi… Ma prima di tutti i marchingegni la voce era dei vivi e dei presenti qui e ora. Come lo era la musica prima della possibilità di sentirla in assenza di chi la suona.
Dunque l’ónoma non è esattamente la parola o il nome: è anche il suono della parola qui e ora. La parola sonora viva adesso.
Nel mentre…
La seconda parte dell’ultimo verso è la svolta. La beffa, quel che ci frega. “Mentre”: mentre è la parola chiave. Ad una lettura distratta rischieremmo di non accorgercene neanche. Il concetto chiaro in apparenza si ribalta di scatto in uno scacco per la mente. E proprio in quel mentre, la preda fugge. La stessa grammatica (ordine razionale che diamo ai suoni organizzati in significati condivisibili), ci lascia con un pugno di mosche: ci dice picche. Ma anche se “…la mente dirupa / frantumata,…” noi proviamo, tentiamo insieme qualche straccio di basica analisi logica.
Verso finale: “(l’ónoma) che niente arresta.”
Soggetto: “lei”. La bestia, l’ónoma trattenuta tra parentesi.
“Che niente arresta”.
Erma bifronte. Se il soggetto è “lei”, il verso suona chiaro, parafrasato:
l’ónoma che non arresta niente.
Dunque il nome non cattura ciò che nomina, non contiene la sostanza della cosa che dice. Anzi, la vanifica. la uccide. Filosoficamente complesso ma tutto sommato limpido, ci pare di afferrare il concetto. Se dico cane tu non sai quale cane intendo e ciascuno ne vedrà uno diverso (esempio caro a Caproni, come in questa intervista che possiamo riascoltare dalla riproduzione della voce e del fantasma del Maestro, che aggiungerebbe: …abbiamo scoperto l’ombrello!).
Questo se il soggetto è “lei”. Ma se il soggetto fosse “niente”. Il che potrebbe benissimo essere. Basta rileggere spostando l’accento sulla parola niente: “… / (l’ónoma) che niente arresta”. suonerebbe altrettanto chiaro ma di senso opposto:
niente arresta l’ónoma.
Siamo passati da “la parola non afferra niente”, a “niente afferra la parola”. Quindi la Bestia ci scappa ancora. Entrambe le sentenze sono inscritte nello stesso verso. Come in un frammento di Eraclito in cui carattere e destino si ribaltano specularmente nel senso.
Preda persa.
Il suono evapora, un nome non afferra e non si lascia afferrare, tutta la vita sfugge e ti resta in mano solo il lenzuolo del fantasma; il senso o la sostanza non se ne stanno lì buone tra le nostre parentesi tonde, quadre, graffe… Quel che resta ingabbiato tra le lettere è solo il niente: la Bestia non la prenderemo mai.
Si avverano così sotto i nostri occhi i versi 6 e 7: lei “…sguscia / e in sé s’intana” (esce dal suo uovo per un istante ma solo per rintanarsi nuovamente dentro sé stessa) non importa se volando o strisciando. Nemmeno un maestro della parola, come l’autore del poema, l’afferra; tanto meno noi, cacciatori della domenica, bellamente accorsi su richiamo del Conte alla folla in furia d’armi.
Bestiario minimo.
Come il suono inafferrabile, la Bestia sfugge: niente la trattiene. Tanto meno il nominarla (ossessivamente), che al massimo illude, non racchiude, non trattiene niente; il senso o la sostanza, se c’è, si perde.
E se la nostra Storia è fatta di parole, questo sarà il destino della nostra Storia. E se la nostra Storia è costellata di Bestie, eccole qui scorrere, apparire in allucinata sequenza le allegoriche Bestie della nostra Storia da sempre diversa, da sempre la stessa.
Mutanti nell’arco del componimento lo attraversano da cima a fondo ingabbiate (per un istante) in aggettivi metamorfici, neologismi del bestiario caproniano. Ma sono sempre lei.
“Leoneggiante”: …in un nobile, araldico, sfingeo leone. Il felino.
“Gecheggiante”: ora si atteggia a umile, immobile, fulmineo geco. Il rettile.
Ora è “draghegginate”: un terribile, malefico, fiabesco, drago. L’immaginario.
Infine “Amebeggiante”: torna in una elementare, invisibile, microbiologica ameba. Torna al presente, alla contemporaneità, alla scienza. Ma è sempre lei.
Il poema è un concerto. Risuonano le qualità di questa Bestia già enunciate ne LA PREDA (“felis nebulosa…”). Risuona la sentenza del COROLLARIO (“Leone o drago che sia, / il fatto poco importa. / La Storia è testimonianza morta. / E vale quanto una fantasia.”).
In quattro passi abbiamo qui il bestiario continuamente (apparentemente) cangiante che pare riassumere tutta la Storia umana, il senso abbozzato o presunto di tutte le cose cui diamo la caccia, col nostro vociare plurimillenario, le armi imperfette, sbagliando la mira, in tutte le vite, di tutti gli uomini, dal chissà quando all’oggi stesso, in ogni dove; dal Conte di Kevenhüller fino esattamente a te: lettrice o lettore.
La bestia che qui scrive ti ringrazia per la tua attenzione.