“Il ‘poco’ e il ‘nulla’ nella poesia di Caproni” di Salvatore Ritrovato
Un quadro del percorso di un poeta
Raro caso di lettura utile e chiara al neofita quanto proficua per chi già conosca Caproni, riporto qui una versione semplificata di un saggio di Salvatore Ritrovato, tratto da:
Galleria degli Autori Contemporanei Italiani. Salvatore Ritrovato,PROFILO DI GIORGIO CAPRONI: Il “poco”e il “nulla” nella poesia di Caproni , Bologna-Lovanio, 1996. http://www.comune.bologna.it/iperbole/assrere/autori/caproni.htm
Profilo di GIORGIO CAPRONI
Il “poco” e il “nulla” nella poesia di Caproni
“Insomma, quello cui io tendo, l’unica cosa che vorrei poter insegnare è un modo di guardare, cioè di essere in mezzo al mondo. In fondo la letteratura non può insegnare altro” (Italo Calvino, lettera a F. Wahl).
1. E’ una preoccupazione non solo del critico ma anche del semplice lettore, quella di avere un quadro del percorso di un poeta, e ciò vale soprattutto per chi ha attraversato con la sua opera tutto un secolo, passando le fasi cruciali della storia e lasciando nelle sue raccolte una prova del suo attaccamento alla vita e del suo impegno.
L’opera poetica di Giorgio Caproni, nato a Livorno nel 1912 e morto a Roma nel 1990, ha conosciuto una rapida diffusione presso un pubblico di lettori più vasto (per quanto si possa dire vasto il pubblico di poesia, s’intende) a partire dagli anni ’70 e una crescita dell’attenzione della critica negli anni ’80 e ’90, con monografie a volta di notevole interesse.
L’edizione Garzanti dell’opera generale (1932-1986) ha ricevuto nel 1994 un’altra ristampa, dopo le edizioni dell”83 e dell”89. Postuma, nel 1991, è uscita la raccolta Res Amissa. Caproni ha avuto una certa fortuna soprattutto in Francia, grazie alle belle traduzioni di Philippe Renard e Bernard Simeone de Il muro della terra (Le mur de la terre. Cinquante ans de poésie, Paris, Nadeau, 1985) e il Conte di Kevenhuller (Le Comte de Kevenhuller, Paris, Nadeau, 1986). Mi pare, però, che la sua fortuna in Europa non esprima ancora tutto il suo grande talento poetico. Come dicevo prima, nella lettura di un poeta, a un certo punto è giusto porre domande più precise circa il suo percorso; e questo è particolarmente comprensibile per un autore come Caproni.
Le prime tre opere
Le prime tre opere di Caproni, Come un’allegoria (che raccoglie poesie del 1932-1935), Ballo a Fontanigorda (1935-1937), Finzioni (1938-1939), hanno a prima vista poco in comune con le ultime, e presentano molte differenze anche da quelle immediatamente successive, Cronistoria (1938-1942), Il passaggio d’Enea (1943-1955). L’opera del poeta è scandita dalla storia europea di quegli anni. Se mettiamo in fila, una dietro l’altra, tutte le opere di Caproni osserveremo che resta solo qualche anno (per dir così) scoperto ed esistono sovrapposizioni.
Mentre completa il Passaggio d’Enea, che uscirà nel 1956, il poeta già lavora dal 1952 al Seme del piangere, che uscirà nel ’59. Dal ’58 al ’60 pare che egli non scriva niente. Una breve ma intensa cesura, un ripensamento, una metamorfosi.
Nel ’60 Caproni riprende il filo del discorso (ma è un discorso molto innovato nei temi e nelle forme) con il Congedo del viaggiatore cerimonioso & altre prosopopee (1960-1964).
Dal ’64 al ’75
Dal ’64 al ’75, anno di pubblicazione, lavora a Il muro della terra; prima di arrivare alla fine di questa raccolta, Caproni dà inizio a Il franco cacciatore, che raccoglie poesie dal 1973 al 1982. Nel 1978, in occasione di un viaggio in Francia – un periodo di svago, una parentesi nel lavoro assiduo della raccolta principale – redige un quadernetto di versi, Erba francese. Il conte di Kevenhuller, che è l’ultima raccolta pubblicata personalmente dal poeta, è del 1986 e raccoglie testi per lo più scritti dopo l”82.
Infine, i versi sparsi, cosiddetti Versicoli del ControCaproni, schizzati fuori dal maggior ciclo a partire dal ’69, e i testi editi postumi di Res Amissa restituiscono, mi sembra, un quadro alquanto completo dell’attività di Caproni nell’arco di sessantanni.
Adele Dei, autrice di una ricca monografia sul poeta (Giorgio Caproni, Milano, Mursia, 1992), ha dato un’interpretazione del percorso che è giusto riportare. […]
“Seguire per più di un cinquantennio la poesia di Caproni significa riconoscerne le grandi capacità evolutive, la costante possibilità di crescere e di rinnovarsi, e insieme la sotterranea fedeltà a se stessa, l’intreccio di plurime corrispondenze. […] Dalle prime prove degli anni trenta al Conte di Kevenhuller e oltre, si estende una distanza incommensurabile, ma nello stesso tempo si allarga una fitta rete di richiami, di conferme e di obbiezioni; alcuni temi e immagini riaffiorano dopo decenni, concentrati in un geroglifico esemplare, tornano come sigle vitali, come grumi significativi. […] Il percorso è dalla immediatezza, dalla giovanile felicità sensoriale, alla complessità, all’ingorgo, anche emotivo, fino ad approdare a una limpidezza cristallina, a una tensione lucidissima, a una miracolosa semplicità ritrovata (p. 5)”.
Questa interpretazione cerca di conciliare in un unico svolgimento lo snodarsi dei due o tre “tempi” che i critici attribuiscono alla poesia di Caproni. I tre tempi sono:
quello macchiaiolo, carducciano, condizionato dall’ermetismo (riferisco aggettivi già usati), aperto anche alla sperimentazione narrativa (ricordo i tre racconti lunghi, Giorni aperti, Il labirinto, Il gelo della mattina, e numerosi altri racconti pubblicati su riviste e giornali), che riguarda le prime tre raccolte;
quello dell’accensione lirica e della ricerca della forma in modi quasi neoclassici di Cronistoria e de Il passaggio d’Enea;
quello della scarnificazione e sliricizzazione della forma poetica, ovvero della ricerca della “massima semplicità possibile” (come dice il poeta ad Alberto Cavalleri, “Cultura & Libri”, nn. 16-17, 1986), tipica delle raccolte successive al Passaggio che affrontano i grandi temi esistenziali (la morte, Dio, il Male).
Se a fronte o di fianco (decideremo alla fine) di questa interpretazione, lucida e a prima vista convincente, della Dei poniamo le testimonianze del poeta sul suo percorso poetico, ci accorgiamo però che non è facile avere un quadro chiaro di Caproni e della sua poesia, e che, per comprendere questo poeta, sulla cui “ateologia” e “nichilismo” è stato detto molto, è opportuno porre la questione diversamente, rovesciando (come si suol dire) il bicchiere, da mezzo vuoto a mezzo pieno.
Siamo proprio sicuri che il percorso del poeta, verso la massima semplicità, non sia maturato in seguito a fratture e suture profonde, tanto che hanno inciso nella continuità della poetica? L’immagine che di sé diede Caproni una volta (cfr. F. Camon, Il mestiere di poeta, Milano, Lèrici, 1965, pp. 127-136) ci mette sulla strada giusta per capire quello che in effetti non poteva essere spiegato perché era già detto in versi:
“C’è stato un movimento, se si può dire, a fuso, ‘fusolare’: ero partito da una scarnificazione ancora di carattere impressionistico, macchiaiolo, che pian piano si è amplificata e gonfiata nel poemetto, nell’endecasillabo, nel sonetto: finché, poi, forse anche per il trauma della guerra, mi è venuta la saturazione di quelle forme, troppo ampie, e allora ecco il bisogno di tornare alla massima semplicità possibile. Il rumore della parola, a un certo punto, ha cominciato a darmi terribilmente fastidio”.
[…]
“L’unica ‘linea di svolgimento’ che vedo nei miei versi, è la stessa ‘linea della vita’: il gusto sempre crescente, negli anni, per la chiarezza e l’incisività, per la ‘franchezza’, e il sempre crescente orrore per i giochi puramente sintattici o concettuali, per la retorica che si maschera sotto tante specie, come il diavolo, e per l’astrazione dalla concreta realtà. Una poesia dove non si nota nemmeno un bicchiere o una stringa, m’ha sempre messo in sospetto. Non mi è mai piaciuta: non l’ho mai usata nemmeno come lettore. Non perché il bicchiere o la stringa siano importanti in sé, più del cocchio o di altri dorati oggetti: ma appunto perché sono oggetti quotidiani e nostri “.
[…] Certo, non è in nome di un nuovo realismo che egli parla di bicchieri, di stringhe (che, a dir la verità, sono rare) e di altri “oggetti quotidiani e nostri”; e non è in nome di un preteso tradizionalismo che egli si sforza di esaudire la ricerca e la sperimentazione di una nuova forma poetica, opponendo alla pressante esigenza di comunicare qualcosa al lettore la “massima semplicità possibile”.
Eppure è proprio in questo tentativo che la poesia di Caproni mostra dall’interno, cioè in rapporto al contesto e alla vita, la sua “linea di svolgimento” e la sua continuità; di ricerca (forse non di poetica). E’ così che la poesia viene sempre più scarnendo, la sintassi si riduce all’essenziale, e i dettagli e gli oggetti risaltano meglio, come in un corpo disseccato sono più visibili le sporgenze delle ossa.
La punteggiatura
La punteggiatura assume una funzione prevalentemente ritmica e intonativa, serve più a scandire il verso e a disseminare trappole, deviazioni, lacerazioni, che a pausare ed armonizzare il fraseggio.
La rima, l’assonanza, l’allitterazione
La rima, l’assonanza, l’allitterazione diventano il perno centrale, il cardine attorno cui ruota il testo, o (per rendere più dinamica e caproniana l’idea) la sua chiave musicale.
2. Ma scendiamo in concreto nella nostra tesi riprendendo un’osservazione di Italo Calvino (in un intervento del 1980, oggi noto come Il taciturno ciarliero, in Genova a Giorgio Caproni, Genova, Edizioni S. Marco dei Giustiniani, 1986) sul fatto che in Caproni il Nulla non si contrappone al Tutto ma al Poco. Più che la narratività, rilevava lo scrittore, in Caproni colpisce la “teatralità” dei personaggi e del poeta stesso: la “recitazione”, senza magniloquenza, anzi con ironia e grazia, “procede ora con rapidi raccourcis e movimenti ellittici, ora attraverso una parlantina divagatoria, indugiante sui dettagli”.
Teatralità
[…] Si ha quasi l’impressione di ‘leggere’ un continuo cantabile per tenore o basso, a seconda dei casi, misurando con il recitativo secco un copione degno invece di essere cantato. Pare che Caproni stia attento alla ‘distrazione’ del lettore. La teatralità, la gesticolazione sonora è un’illusione (altrimenti il poeta avrebbe scritto dei drammi): un’illusione fondamentale però nella poetica di Caproni.
Essa è prodotta dall’impiego continuo di una serie di verbi e di espressioni verbali attinenti al campo – si passi il pasticcio – dell’espressione verbale: i personaggi diventano attori, i soliloqui monologhi o “prosopopee”.
Il verbo “dire”
Il verbo “dire” pare il verbo più frequente nelle ultime raccolte di Caproni. Tanto frequente nei testi che leggiamo, tanto quotidiano nella nostra vita, che alla fine passa inosservato. Ed è esso invece il verbo portante del nostro essere nel mondo: se non lo diciamo, non possiamo neppure dire di non esistere o chiederci se esistiamo.
Catene di verbi
Accanto a “dire”, nel suo usuale significato, si dispongono diverse serie di verbi, di area semantica comune o affine, nel contesto in cui essi vengono adoperati (espressione di un discorso, di un pensiero, di una parola): i verbi neutri “domandare”, “parlare”, “pensare” etc.; i verbi coloriti “squillare”, “gridare”, “strillare”, “cantare”, etc.; e quei verbi tipici intercalati nel discorso per richiamare l’attenzione dell’ascoltatore (“pare”, “crede”, “vedi” etc.).
Queste tre catene di verbi attirano dietro di sé altre catene di verbi: quella dell'”ascoltare” e dell'”udire”, molto importante perché non sempre nelle poesie di Caproni c’è qualcuno che ascolta; e quella dello “scrivere” e del “leggere”, più trascurata, perché sembra che i personaggi preferiscano comunicare a voce o dialogare.
Attorno a questi pochi verbi si formano numerose associazioni e famiglie di sostantivi, aggettivi, senza escludere ovviamente quelli deverbali, che si dispongono tutti attorno disegnando un cerchio aperto di lemmi legati alla sfera dell’udire (quando la parola è orale) e del vedere (quando la parola è scritta): nel primo caso abbiamo, “suono”, “rantolo”, “lamento”, “fiato”, “pianto”, “urlo”, e qui includerei anche il linguaggio degli animali (ma non lascerei fuori il “silenzio”, che talvolta ha il valore di una pausa musicale: p. es. il “silenzio ossuto” di – si badi al titolo – In bocca, MT); nel secondo caso, siamo a contatto con l’ambiguità del segno, che è non solo “parola” “nome”, “ònoma”, “nota (musicale)” (e si sa quanto sia importante la musica nelle poesie di Caproni), “simbolo”, ma anche – è un elenco a casaccio – “orma”, “traccia”, “segnale” (di fumo e di altre cose), “battito” (del piede o delle dita o del cuore), e così via.
Un cerchio più su di questi disporremo un altro gruppo di verbi che riguardano il “corpo” del parlante (o del significante) e dell’udente, i suoi strumenti (compresi naturalmente quelli musicali), il suo ambiente: “mano”, “bocca”, “labbra”, “dita”, “piede”, “penna”, “tamburo”, “libretto”, “scrittoio”, che richiudono, circolarmente, il mondo creato dal poeta su se stesso.
Pur obbligati a fermarci qui (rimandiamo i migliori esempi nel corpus dei testi scelti e tradotti), non dobbiamo dimenticare che talvolta chi parla usa riportare le parole degli altri, con il discorso indiretto libero (ovvero la parola dentro la parola), il che accresce la tensione drammatica.
Sia consentito rimandare a Il vetrone, per passare a parlare di quel “Poco” di cui dicevo prima. L’esempio è ne Il muro della terra. Dopo i “tre vocalizzi per cominciare” (un cartello, una scritta che dice “confine”, e dà la “falsa indicazione”, che è però quella “giusta”), e una breve visita allo scrittoio (dove la condizione dell’uomo “solo, / chiuso nella sua stanza. / Con tutte le sue ragioni. / Con tutti i suoi torti”, è appunto quella di parlare ai morti), Caproni ci porta dei testi che colgono, in forma di prosopopea (Finita l’opera) e di conversazione, mista di discorso diretto e indiretto, gesti e segni (Il vetrone), il senso della misura delle cose nella “disperazione / calma, senza sgomento” di tutti i giorni.
Prosopopea o personificazione
3. Dispositivo retorico, tanto enfatico quanto ironico e non privo di grazia, la “prosopopea” è usata da Caproni proprio per dare concretamente profondità allo spazio nel quale egli si muove, o nel quale egli fa muovere e parlare i suoi personaggi.
Il congedo del viaggiatore cerimonioso
Pochi ma essenziali oggetti creano il mondo di un personaggio angosciato ma stranamente loquace, “cerimonioso”. La prosopopea più nota è, appunto, quella del “viaggiatore” che si congeda da compagni del suo scompartimento: egli è arrivato alla sua stazione, prende la valigia, la scarica nel corridoio, saluta ad uno ad uno i suoi occasionali amici, augura buon proseguimento… La metafora esistenziale è persin troppo evidente, ma non c’è nulla di stonato: il significato, che il lettore alla fine è indotto a tradurre, si mantiene su un livello di inquietante leggerezza, come se gli oggetti, gli atti, i gesti, le parole, del viaggiatore non fossero soltanto il supporto di una metafora alta ma l’essenza stessa del nostro rapporto con questa metafora. Sì, dietro la compunta svagatezza del viaggiatore possiamo riconoscere l’uomo che capisce di aver chiuso il suo breve viaggio terreno; ma quello che resta poi nella memoria è l’aria della stazione, la lieta conversazione che c’è stata, il mondo dei treni con tutto quello che effettivamente si pensa e si fa in quel mondo. Quello che Caproni ottiene, in questo modo, è uno spazio oggettivo di sentimenti, non tanto simbolico ed ermetico, quanto allegorico e surreale benché sembri in tutto simile alla realtà.
Partiture frammentate
A tal fine Caproni può usare un procedimento contrario alla prosopopea. Con questo procedimento coinvolge altri personaggi in uno spazio sempre ristretto ma essenziale, dove essi parlano, si muovono, si inseguono, o sono in attesa di comunicare (cosa a volte un po’ difficile, perché può capitare che qualcuno di loro sia morto). Il franco cacciatore e Il Conte di Kevenhuller sono in pratica costruiti come due lunghi poemetti frammentati e scheggiati (entrambi dall’aria di libretti d’opera) i quali propongono una trama, dei personaggi, atti e intermezzi, scenari fissi, insomma un mondo. Ed è quello che resta dopo la lettura: l’impressione di non aver attraversato un mondo di pure idee e concetti ma fatto di cose, animali, uomini, emblemi, nomi, ombre (ricordate i bicchieri, le stringhe…?), una fiaba, forse, assurdamente simile alla nostra realtà.
Questa situazione paradossale provoca un particolare tipo di lettura: tutti i testi, nonostante la loro estrema frammentarietà, si legano tra loro in un discorso complessivo. Leggiamo, per esempio, Rinunzia: “L’ho seguito. // L’ho visto. // Non era lui. // Ero io. // L’ho lasciato andare. // Incerto, / ha preso il viottolo erboso. // Con un balzo è sparito / (ero io, non lui) / nel fitto degli alberi, bui” (CK, p. 625).
Si parla evidentemente di un inseguimento, di una fuga, ci sono due personaggi e un paesaggio fatto di un viottolo erboso, un bosco fitto, il buio. Questo “altrove”, già occupato da oggetti, letto nel contesto della raccolta, si arricchisce di altri illuminanti dettagli: quel “balzo” non è solo una metafora, ma il segno di una siepe o di un muro da superare; l'”io” e il “lui”, e la loro intercambiabilità, trovano giustificazione nel sistematico avvicendamento dei personaggi agenti e agiti sulla scena, dalla loro inidentità. Anche il buio, il bosco, il viottolo non è la prima volta che compaiono. Insomma, dietro l’intrico di questioni filosofiche e teologiche sollevate da un semplice testo non vi è il vuoto, il nulla; al contrario, si scorge una meticolosa ricostruzione dello spazio poetico, così meticolosa che, pur essendo niente affatto realistica, essa richiede un’attenzione speciale.
Ora dovrei aprire una breve parentesi su due testi che esemplificano quanto detto: L’ultimo borgo (FC) e Un niente (CK) […] Si faccia attenzione a come l’ambiente, nel quale è svolta l’azione – in entrambi i casi un’azione statica, di attesa quasi indolente, apatica – sia ricostruito con cura, soprattutto nel primo testo (che ha poi intitolato la raccolta antologica della poesie di Caproni 1932-1978).
Qui il “tavolo”, l'”osteria”, la “strada lunga”, i “sassi”, le “crepe dell’asfalto” etc. disegnano un paesaggio di tutti i giorni, o che è possibile incontrare un giorno qualsiasi, un paesaggio secco ed essenziale (come si ama ripetere), ma nella sua secchezza ricco e nella sua quotidianità irreale.
Non è una cosa eccezionale che tra i due testi, distanziati negli anni (il primo del ’76, il secondo dell”83), difatti inseriti in due raccolte diverse, si notino delle somiglianze, sia in alcuni particolari del paesaggio sia nell’immagine della cascata.
Non c’interessa appurare se Caproni, dal Congedo in poi, lavori su un campo ben definito di temi e in modo quasi ossessivo. Conta che in entrambi i testi leggiamo uno sforzo a parlare, scaturito dalla ricerca inutile della preda o dall’attesa di un’impossibile comunicazione con gli amici, ormai trapassati, che risulta vano.
Lo spazio, con i suoi paesaggi scarni e paradigmatici (il bosco, il fiume, il vallone, la gola, la siepe, il muro, i sassi, i viottoli etc.), con i suoi interni dalle linee precise e schematiche (la latteria, l’osteria, la stanza dello scrittore), scandagliato e rovistato dal poeta, dalle sue controfigure e alter ego, nonché dai suoi personaggi, ora si riempie di silenzi violenti ed esplosivi, o di parole, suoni, segnali, gesti, rantolii, che cercano di rimettere in gioco il discorso sul niente, così come conclude Un niente (“Un soffio… // (Non è paura.) // Di tutto l’avvenimento, in mente / appena // (a pena) // un niente”).
In Il vetrone il poeta ricorda il padre dalle parole e dai gesti, ma è il silenzio finale di una parola, la sua cancellazione, o rimozione, che ci fa tornare indietro nel testo a ripescare tra le possibili rime quelle mancanti. La parola cancellata pare essere “morire”, che, non è casuale, rima con “dire” (“Non c’è più tempo, / diceva, non c’è / più un interstizio – un buco / magari – per dire / fuor di vergogna: “Babbo, / tutti non facciamo altro / – tutti – che “): il poeta, per restituire l’impossibile conversazione con il padre con un’immagine, visualizza proprio il termine dell’assenza definitiva, cioè la morte, cancellandone l’immagine tipografica, oggettivando la spaziatura.
Così la morte, ontologia negativa per eccellenza, già parola, oggetto, ora non potendo essere identificata, né pronunciata, né visualizzata, diventa silenzio, silenzio dei tasti sul foglio: essa è quel Poco che noi uomini, se non vogliamo parlarne, possiamo sottintendere, e non è il Nulla.
Anche il paradosso in molti testi di Caproni esprime la possibilità di parlare ancora del mondo e di cercare in questo un Poco di ragione. Si prenda, per esempio, Ritorno (MT): “Sono tornato là / dove non ero mai stato. / Nulla, da come non fu, è mutato. / Sul tavolo (sull’incerato / a quadretti) ammezzato / ho ritrovato il bicchiere / mai riempito. Tutto / è ancora rimasto quale / mai l’avevo lasciato”.
Se Caproni ritenesse la ragione uno strumento del tutto inadeguato a comprendere il mondo, lo sbocco non sarebbe il paradosso, il ragionamento stringente, la conseguenza non conseguente o incongruente, ma il silenzio totale, in ogni senso.
Al contrario, il paradosso, l’aforisma, l’antifrasi, il contraddetto rendono certi di quel Poco – poco di ragione – che all’uomo resta. Questo non è “minimalismo”, o anti-illuminismo o anti-umanismo, né d’altra parte razionalismo o logocentrismo (per usare un contrappunto di termini filosofici chiamati in causa, non sempre a proposito, nell’esegesi di Caproni): è tagliente ed astuta paradossalità della poesia.
4. In breve e per concludere […] mi riallaccio a quello che dicevo sul percorso poetico di Caproni e mi chiedo se questo Poco sia un concetto estraneo al primo e al secondo tempo di Caproni. Certamente no, ma sarebbe utile precisare in che senso ora si usa “poco”, un concetto di “forma”, creato ad hoc per questa lettura.
Vi è il Caproni sospettato di ermetismo (compagno di strada dell’ermetismo? ermetico minimalistico…?) delle prime raccolte, e il Caproni controverso, quasi magmatico, degli anni ’40-’50, che, dopo una fase di ‘ermetismo’ (nel senso letterale) approda a un fraseggio lirico rapido e seducente (“rime chiare, / usuali… / coi suoni fini / che non siano labili / anche se orecchiabili… / non crepuscolari, / ma verdi, elementari”, Per lei, SP), recuperando una leggerezza per certi versi stilnovistica.
In verità è un solo Caproni, che a volte mostra una trasparenza e una levigatezza di espressione tali da convertire l’altezza del pathos in una poesia tenue ma profondissima (ed hanno questo spessore tutte le poesie per Annina, la mamma ricordata nel Seme del piangere, uno dei più bei canzonieri d’amore della letteratura italiana); altre volte, molto lontano dalla “semplicità assoluta” delle ultime raccolte, scava più nella forma che nell’immaginazione e quasi con enfasi esclude la linearità, la concisione, la serena ma sgomenta chiarezza del paradosso, da questo tortuoso incrocio di afflato etico e tensione stilistica.
Così in Cronistoria compare già quel verseggiare più “leggero” ma non meno drammatico, che apre, decisamente, il fronte della successiva ricerca poetica di Caproni. Ne Il passaggio d’Enea vi sono forme testuali diverse dai sonetti e dalle stanze, forme più libere sia nell’uso metrico (versi facili, semplici, rapidi, […]), sia nella sintassi, piana e lineare, senza inversioni ed irte costruzioni di apposizioni ed aggettivi; […] Ma non è una trasformazione improvvisa. In Il passaggio d’Enea questo trobar leu convive con il trobar clus, con risultati di notevole contrasto. […] Insomma il succedersi dei primi due tempi di Caproni pare davvero problematico. Qualcuno potrebbe vederne tre di tempi, se non di più (ma vale la pena?), variamente ripresi e interrotti e intrecciati all’interno di una stessa raccolta; io vedrei una lunga fase di studio di quel “poco” […] al quale il poeta sarebbe giunto dopo aver setacciato altre direzioni. […].
Salvatore Ritrovato
Bibliografia: Come un’allegoria, 1936; Ballo a Fontanigorda, 1938; Finzioni, 1941; Cronistoria, 1943; Il passaggio d’Enea, 1956; Il seme del piangere, 1959; Congedo del viaggiatore cerimonioso, 1965; Il muro della terra, 1975; Il franco cacciatore, 1982; Il Conte di Kevenhuller, 1986; Res Amissa, 1991; Poesie (1932-1991), 1995.
Galleria degli Autori Contemporanei Italiani. Salvatore Ritrovato , PROFILO DI GIORGIO CAPRONI: Il “poco”e il “nulla” nella poesia di Caproni , Bologna-Lovanio, 1996. -http://www.comune.bologna.it/iperbole/assrere/autori/caproni.htm-. Created in Italy by European Board for Expressive Reasearch. All rights reserved.