Categoria: Articoli
BOCCIATO.
Due anni dopo.
Hey Andy, lo sai che anche Caproni ha avuto il suo quarto d’ora di notorietà? Come no, presso tutte le casalinghe di tutte le Voghere, isole comprese. Balzato agli onori (oneri) della cronaca (cronica) per via di un esamino.
Giorgio, sei famoso! Contento?
Pensa. Sulla bocca degli opinionisti della Cippa e dei giornalisti accigliati in atteggiamenti simil-competenti, in diretta dai campi di battaglia della buona (…bòna, ganza) scuola di tutta la povera Italia; e questo a soli 27 anni dalla morte! Guarda che all’Alighieri Dante ce ne sono voluti almeno 30 dal trapasso prima che se lo cagasse poi qualcuno! Bel colpo.
Negativo? No, anzi, tutt’altro: …spero di spacciare presto qualche altro reading!
Grazie Ministra Valeria Fedeli, se permette, da Lei e dai ministeriali in genere questa traccia giunse inattesa, sorpresa graditissima. Grazie. Un buon segno di apertura al “presente” che farebbe sperare.
E poi per me è stato quasi un favore personale, lo ammetto. Zie che mi chiamano entusiaste: …ma non hai visto, che quello là che leggi tu esiste davvero!?!
Cerca, almeno, di esistere.
Dopo lunga lotta, ho capitolato: esisto. Anch’io. Non ho resistito.
Dunque aggiungerò qui, così, a gratis, per quel che vale, anche il mio punto di vista sulla faccenda #Caproni2017 a bocce ferme. Magari riparto pure con il blog, stai a vedere. Mi ero perso nella foresta un’ennesima volta…
Aggiungo la mia voce al brusio delle parole, possibilmente da evitare… (Quanto ti saranno fischiate le orecchie Giorgio, il giorno dell’esame!).
Le tante parole vomitate sulla scia emotiva della vibrante indignazione per… Un cazzo di tema d’esame di quinta superiore, pomposamente noto come Maturità.
Ma cambiamolo ‘sto nome!
Dica il candidato se è maturo. Non lo è? Bocciato.
Alla fine quel che voglio dire si riduce a questo.
Maturo?
No?
Bocciato.
Tu che leggi, se hai di meglio da fare, passa ad altro: detto questo, non avrei altro da aggiungere.
Oppure sì, cambiare nome a questa cosa (in Italia funziona) lasciandola identica così com’è che va benissimo: non più Esame di Maturità (discriminatorio e in fondo un po’ razzista e sessista a ben vedere). Basta che ci sia l’accento sulla à, quello teniamolo:
…Sai quest’anno ho la Velleità.
Oppure anche più schietto:
…Ho passato l’Imbecillità!
E non ce ne staremmo tutti meglio e più sciallati? Tutti promossi, anche i giornalisti.
Dica il candidato se è imbecille.
Lo è? Solo un pochino?
Male, si potrebbe impegnare.
Ma va bene, dai…
Promosso.
Batti cinque.
(Batti Lei, …congiuntivo).
Ma chi cazzo è Caproni!?
Ma chi cazzo siete voi, è la domanda.
Chiunque voi siate.
Qui non si tratta di simpatici ignoranti contro antipatici saputi. Tutti noi ignoriamo moltissimo di tutto e sappiamo pochissimo di poco.
Se tu sai tantissimo di tutto, gli amici non te lo dicono, ma pensano che sei un povero stronzo, altro che simpatico; e hanno ragione.
Il punto è che se non sai chi è Pinco Pallo e te lo citano in un esame di Stato, magari (ma solo magari…) in difetto sarai tu, coglione.
Dimostri il candidato la sua arroganza italica.
Ce l’ha?
Promosso.
Eia eia.
(Saluto).
Istruzioni per l’uso della propria opinione in ambiti al di fuori della propria esperienza.
La vostra legittima opinione, maturata in zero secondi sulla base di zero esperienza, vergata in bella forma su di un pezzetto di carta comune e previamente appallottolata, introducetela – prego – con cura nell’orifizio della vostra cavità anale e ivi custoditela a piacere. (Consiglio letto da qualche parte sul web, mi perdoni l’autore che ignoro: l’ho espressa con parole mie).
Espletata l’operazione di corretto utilizzo della propria opinione in materie estranee alla propria esperienza (si noti che non spendo la parola competenza), potremmo anche ragionare.
Si fa per dire.
Difficile.
Il tema d’esame richiedeva un commento personale a un testo. Riportava note e imboccava le risposte.
Il fatto stesso che per commentare un testo tu ritieni di dover sapere qualcosa a priori, qualcosa che nel testo non c’è e nella tua testa nemmeno, indica semplicemente che non sei maturo. Sei solo davanti a un problema (del cazzo) e non lo sai affrontare.
Bocciato.
Non si fa nei programmi.
Vero: i prof è già tanto se arrivano a spacciarti un paio di formulette sul primo Novecento. Caproni non è da formulette e non c’è tempo.
Ma se sei maturo riuscirai ad avere un tuo pensiero (uno), al di fuori di uno schema, e ad esprimerlo in italiano scritto.
Ripeto. Un pensiero (uno) fuori da uno schema, e (attenzione) relativo ad un singolo testo (redatto in italiano contemporaneo), riportato nero su bianco, provvisto di note.
No?
Bocciato.
I ragazzi non se l’aspettavano, poracci.
Cristo santo, brutto colpo. Qualche sorpresa ogni tanto sembra che possa capitare anche nella vita, dicono. Spiazzato da ‘sta cazzatella?
Bocciato.
Lo conoscono solo a Livorno o a Genova. Se chiedi per strada…
Ma che cazzo chiedi per strada, coglione. Con questo metro arriviamo al massimo a Carlo Conti e alla sua riflessione sul prossimo Sanremo. (Che io prima di quello manco lo conoscevo… Mi sono informato).
Non conoscevi Conti?
No.
Bocciato.
Caproni mai sentito.
Prova a sentirlo, magari ha qualcosa di dirti.
Come Carlo Conti, ad esempio.
Pronto, Carlo Conti?
No.
Bocciato.
Dica il candidato che cosa c’è scritto qui.
Non ne è in grado?
No.
Bocciato.
…
La fine di un incubo.
Tranquilli ragazzi, è tutti finito, bocciati nessuno vedrai, era tutto finto come sempre. Giorgio Caproni, il bestemmiassimo (di questo epiteto sarebbe stato molto fiero) ha fatto un po’ scalpore e adesso sparirà per bene, non tornerà più a turbare la vostra notte prima degli esami e l’ordine perfetto delle pigne che custodirete in testa. Potrà passare tutta vita. Lasciatele seccare lì con calma.
Caproni, sparirà. Non rientrerà mai più nei programmi.
Ve l’assicuro.
Non passerà.
Tutto passato.
E questo forse, udite udite, forse alla fine è pure un bene. Che quel che passa per i banchi sta poi sul culo a tutti; ed è normale. Guarda Dante, guarda Leopardi… Salviamo Caproni dai programmi obbligatori. Un programma ministeriale: come si fa a non odiarlo già dal nome.
Scendo.
Buon proseguimento.
…
Sospensione.
“In perpetua corsa”.
Riporto qui, a distanza di tempo, come promesso, a margine de IL FLAGELLO, un passo di un ottimo articolo di Elisa Donzelli scoperto oggi per caso, che proprio oggi fa al caso mio. Ne cito una parte ringraziando infinitamente l’autrice. Ripercorre (tra le altre cose, e ne consiglio una lettura per intero) le tracce di alcune fonti all’ispirazione caproniana per l’allegoria della Bestia. La lettura è lunga ma prometto gran ristoro al fondo.
Le fonti dell’ispirazione, come è normale, saranno state in sinergia con il tema già a lui caro della caccia, le leggende del Gevaudan, l’Avviso del Conte del 1792 ecc. Qui se ne scoprono radici ancor più lontane. Legate alle prime letture e ad un episodio vivido della sua giovinezza. Giorgio Caproni ultrasettantenne rielabora, magistralmente nella sua ultima composizione, infatuazioni e riminiscenze del ventenne che fu solo ieri.
Tracce della Bestia sull’erba.
Indizi odierni del giallo. Un poeta francese amato in gioventù; un suo libretto di poesie appartenuto a Caproni ventenne; una traccia di rossetto a pagina 17; una ragazza amata e persa, morta troppo in fretta; una cerva, apparsa sull’erba; reminiscenze di un sonetto del Petrarca. Una Bestia sfuggente, sempre, unica preda degna.
Fine anni Venti: Dante in edicola.
Dall’articolo di Elisa Donzelli: “[…] Il “baco della letteratura” Caproni diceva di averlo preso alle elementari, anni di “miseria nera” durante i quali leggeva Dante in un’edizione a dispense comprata dal padre in edicola. Giovanissimo, oltre ai classici e ai contemporanei, aveva scoperto i filosofi cui si era unita la passione precoce per la poesia straniera. L’elenco sarebbe lungo ma […] spicca il nome di un poeta francese [di Arras ndr] della generazione di Ungaretti, Pierre Jean Jouve, cui in Italia non si presta grande attenzione.”
Dunque tra le prime letture del Caproni in erba, spicca il nome (piuttosto sconosciuto in Italia) di un grande poeta francese Pierre Jean Jouve.
Rete di coincidenze.
Ancora Elisa Donzelli: “Tra gli scaffali del Fondo Marconi [a Roma, ndr] è nascosto un libretto di Jouve, Per esser gai come Titania, [appartenuto a Caproni ventenne ndr] che Aldo Capasso aveva pubblicato nel 1935 traducendo alcuni dei versi più incisivi del poeta di Arras. Dico nascosto perché il profilo sottile della Collezione degli “Scrittori Nuovi” di Emiliano degli Orfini [editore ndr] (la stessa che nel 1936 avrebbe accolto, grazie a Capasso, l’esordio poetico di Caproni Come un’allegoria […]) rischia di essere messo in ombra da volumi più corposi […] di un grande autore del Novecento francese.”
Tracce di rossetto sul foglio.
“[…] Quell’edizione curata da Capasso ha qualcosa in più rispetto agli altri volumi della Biblioteca. Chi si appresta a sfogliarla troverà tra le pagine ingiallite alcuni appunti che Caproni aveva segnato a margine dei testi. Fino a qui nulla di nuovo perché i libri del Fondo Marconi si presentano proprio così: note, pensieri, versi interrotti e scritti a mano con una grafia cuneiforme. Ma nel libretto di Jouve accanto alla poesia diciassettesima, sotto la traccia sbiadita di un rossetto rosso depositato sul margine del foglio, Caproni aveva scritto a matita un appunto veloce che a tentare di rileggerlo appare più o meno così:
‘Il segno rosso è un bacio di Olga datovi a Neiron[…] in una giornata di serenità’. Perché cadde proprio in questa poesia? E per di più è 17esima (17 febbraio amandoti, 27 febbraio peggiorando, 7 marzo morta a 27 anni!)’.”
Olga bacia la pagina 17.
Di Olga Franzoni, prima fidanzata del poeta morta in Val Trebbia nel 1936, la critica ha parlato molto. A quella ragazza, da poco scomparsa, Caproni aveva dedicato la prima edizione di Come un’allegoria [1936] e l’ultima poesia di Ballo a Fontanigorda. L’episodio della sua morte l’aveva ricordato nel racconto Il gelo della mattina, iniziato nel 1937 e simile allo Jouve di Dans les années profondes del 1935.”
Per i filologi dei secoli dopo.
Parentesi. Struggente immaginare un giorno di serenità di due ventenni degli anni Trenta (chissà dove: …sull’erba?) con un libretto di un oscuro poeta francese, e lei che gli lascia (per sempre) una traccia delle sue labbra su una pagina.
Oggi quel libro è conservato a Roma, nel Fondo Marconi, per i filologi dei secolo dopo.
“Poi il nome di Olga era scomparso ma la sua ombra era tornata a vivere nei Sonetti dell’anniversario del 1942 e nei versi di E lo spazio era un fuoco entrambi ambientati in una Roma di rovine e macerie dove il rossetto di quella ragazza spargeva, in incognita, i suoi segni febbrili […]. Oggi, grazie al libretto di Jouve conservato nel Fondo Marconi, la sua immagine di ragazza-lettrice scavalca ulteriormente l’eterno femminino della tradizione lirica italiana per mostrare una nuova natura camaleontica.”
I versi della pagina 17.
“Secondo Ungaretti in Jouve “l’amore si converte in morte spaccato dal peccato” e Risi […] ha aggiunto che per salvarsi l’uomo “esteriorizza i fantasmi che lo divorano”. Lo confermano i bestiari jouviani che riesumano la cerva di Petrarca e che inscenano il passaggio di una misteriosa bestia:
“Una bestia ammirabile dalla coscia segreta
Passa sulla terra infinitamente ferita –
Piaga di sangue spumeggiante e fresco –
Esso mi trascina, lo sento, fuori della città”.
[…] La Bestia con la ‘B’ maiuscola, si sa, è uno dei grandi temi dell’ultima stagione poetica caproniana ma, rileggendo questo articolo, viene il sospetto che all’anagrafe proprio lei, “(l’ónoma) che niente arresta”, fosse stata registrata sotto il nome di Jouve.”
Cerva, Laura, Olga, Bestia.
(Non a caso un titolo simile è qui). Sottolineerei nell’illuminate passaggio, come l’autrice stessa riveli che l’anagrafe riporti ancor prima una paternità a Petrarca (…e da lui, per ignoranza mia, sicuramente a qualcun altro prima). La cerva fu già allegoria dell’apparizione di Laura (si noti tra i versi del sonetto a seguire il senal provenzale del ramo d’alloro o lauro, segno che ne scherma e rivela la presenza sulla scena). Laura che forse, oltre che donna, fu allegoria ella stessa. Se così non fosse non sarebbe giunta a noi.
Una cerva superba, libera e imprendibile. Vista per un istante. Persa per sempre. Francesco dice: io caddi in acqua e lei sparì. Ce lo racconta così.
Francesco Petrarca, dal Canzoniere (Rerum vulgarium fragmenta), sonetto 190(qui un pdf del testo con traduzione inglese)
Una candida cerva sopra l’erba
verde m’apparve con duo corna d’oro,
fra due riviere all’ombra d’un alloro,
levando ’l sole a la stagione acerba.
Era sua vista si dolce superba
ch’ i’ lasciai per seguirla ogni lavoro,
come l’avaro che ’n cercar tesoro
con diletto l’affanno disacerba.
“Nessun mi tocchi,” al bel collo d’intorno
scritto avea di diamanti et di topazi.
“Libera farmi al mio Cesare parve.”
Et era ’l sol già vòlto al mezzo giorno,
Gli occhi miei stanchi di mirar, non sazi,
Quand‘ io caddi ne l’acqua et ella sparve.
Inseguirò la mia cerva.
Perché l’ho vista sparire. Appare e scompare in tutte le vite. Se l’hai vista non puoi non lasciare per seguirla ogni lavoro. Alla luce di questo, se vi va, se non siete esausti dopo una battuta di caccia un po’ troppo lunga (…se avete avuto la forza di leggere – reggere – fino a questo punto!), riascoltiamo i versi finali della prima parte de IL FLAGELLO (41), dove appariva controluce proprio lei, subito persa eppure: sola preda degna.
“Da inseguire sempre / da inseguire ancora / fino ai laghi bianchi del silenzio”
Ma questo è Paolo Conte: …è della partita? Come no, sui titoli di coda. Verso la fine. Ci sta.
“Il ‘poco’ e il ‘nulla’ nella poesia di Caproni” di Salvatore Ritrovato
Un quadro del percorso di un poeta
Raro caso di lettura utile e chiara al neofita quanto proficua per chi già conosca Caproni, riporto qui una versione semplificata di un saggio di Salvatore Ritrovato, tratto da:
Galleria degli Autori Contemporanei Italiani. Salvatore Ritrovato,PROFILO DI GIORGIO CAPRONI: Il “poco”e il “nulla” nella poesia di Caproni , Bologna-Lovanio, 1996. http://www.comune.bologna.it/iperbole/assrere/autori/caproni.htm
Profilo di GIORGIO CAPRONI
Il “poco” e il “nulla” nella poesia di Caproni
“Insomma, quello cui io tendo, l’unica cosa che vorrei poter insegnare è un modo di guardare, cioè di essere in mezzo al mondo. In fondo la letteratura non può insegnare altro” (Italo Calvino, lettera a F. Wahl).
1. E’ una preoccupazione non solo del critico ma anche del semplice lettore, quella di avere un quadro del percorso di un poeta, e ciò vale soprattutto per chi ha attraversato con la sua opera tutto un secolo, passando le fasi cruciali della storia e lasciando nelle sue raccolte una prova del suo attaccamento alla vita e del suo impegno.
L’opera poetica di Giorgio Caproni, nato a Livorno nel 1912 e morto a Roma nel 1990, ha conosciuto una rapida diffusione presso un pubblico di lettori più vasto (per quanto si possa dire vasto il pubblico di poesia, s’intende) a partire dagli anni ’70 e una crescita dell’attenzione della critica negli anni ’80 e ’90, con monografie a volta di notevole interesse.
L’edizione Garzanti dell’opera generale (1932-1986) ha ricevuto nel 1994 un’altra ristampa, dopo le edizioni dell”83 e dell”89. Postuma, nel 1991, è uscita la raccolta Res Amissa. Caproni ha avuto una certa fortuna soprattutto in Francia, grazie alle belle traduzioni di Philippe Renard e Bernard Simeone de Il muro della terra (Le mur de la terre. Cinquante ans de poésie, Paris, Nadeau, 1985) e il Conte di Kevenhuller (Le Comte de Kevenhuller, Paris, Nadeau, 1986). Mi pare, però, che la sua fortuna in Europa non esprima ancora tutto il suo grande talento poetico. Come dicevo prima, nella lettura di un poeta, a un certo punto è giusto porre domande più precise circa il suo percorso; e questo è particolarmente comprensibile per un autore come Caproni.
Le prime tre opere
Le prime tre opere di Caproni, Come un’allegoria (che raccoglie poesie del 1932-1935), Ballo a Fontanigorda (1935-1937), Finzioni (1938-1939), hanno a prima vista poco in comune con le ultime, e presentano molte differenze anche da quelle immediatamente successive, Cronistoria (1938-1942), Il passaggio d’Enea (1943-1955). L’opera del poeta è scandita dalla storia europea di quegli anni. Se mettiamo in fila, una dietro l’altra, tutte le opere di Caproni osserveremo che resta solo qualche anno (per dir così) scoperto ed esistono sovrapposizioni.
Mentre completa il Passaggio d’Enea, che uscirà nel 1956, il poeta già lavora dal 1952 al Seme del piangere, che uscirà nel ’59. Dal ’58 al ’60 pare che egli non scriva niente. Una breve ma intensa cesura, un ripensamento, una metamorfosi.
Nel ’60 Caproni riprende il filo del discorso (ma è un discorso molto innovato nei temi e nelle forme) con il Congedo del viaggiatore cerimonioso & altre prosopopee (1960-1964).
Dal ’64 al ’75
Dal ’64 al ’75, anno di pubblicazione, lavora a Il muro della terra; prima di arrivare alla fine di questa raccolta, Caproni dà inizio a Il franco cacciatore, che raccoglie poesie dal 1973 al 1982. Nel 1978, in occasione di un viaggio in Francia – un periodo di svago, una parentesi nel lavoro assiduo della raccolta principale – redige un quadernetto di versi, Erba francese. Il conte di Kevenhuller, che è l’ultima raccolta pubblicata personalmente dal poeta, è del 1986 e raccoglie testi per lo più scritti dopo l”82.
Infine, i versi sparsi, cosiddetti Versicoli del ControCaproni, schizzati fuori dal maggior ciclo a partire dal ’69, e i testi editi postumi di Res Amissa restituiscono, mi sembra, un quadro alquanto completo dell’attività di Caproni nell’arco di sessantanni.
Adele Dei, autrice di una ricca monografia sul poeta (Giorgio Caproni, Milano, Mursia, 1992), ha dato un’interpretazione del percorso che è giusto riportare. […]
“Seguire per più di un cinquantennio la poesia di Caproni significa riconoscerne le grandi capacità evolutive, la costante possibilità di crescere e di rinnovarsi, e insieme la sotterranea fedeltà a se stessa, l’intreccio di plurime corrispondenze. […] Dalle prime prove degli anni trenta al Conte di Kevenhuller e oltre, si estende una distanza incommensurabile, ma nello stesso tempo si allarga una fitta rete di richiami, di conferme e di obbiezioni; alcuni temi e immagini riaffiorano dopo decenni, concentrati in un geroglifico esemplare, tornano come sigle vitali, come grumi significativi. […] Il percorso è dalla immediatezza, dalla giovanile felicità sensoriale, alla complessità, all’ingorgo, anche emotivo, fino ad approdare a una limpidezza cristallina, a una tensione lucidissima, a una miracolosa semplicità ritrovata (p. 5)”.
Questa interpretazione cerca di conciliare in un unico svolgimento lo snodarsi dei due o tre “tempi” che i critici attribuiscono alla poesia di Caproni. I tre tempi sono:
quello macchiaiolo, carducciano, condizionato dall’ermetismo (riferisco aggettivi già usati), aperto anche alla sperimentazione narrativa (ricordo i tre racconti lunghi, Giorni aperti, Il labirinto, Il gelo della mattina, e numerosi altri racconti pubblicati su riviste e giornali), che riguarda le prime tre raccolte;
quello dell’accensione lirica e della ricerca della forma in modi quasi neoclassici di Cronistoria e de Il passaggio d’Enea;
quello della scarnificazione e sliricizzazione della forma poetica, ovvero della ricerca della “massima semplicità possibile” (come dice il poeta ad Alberto Cavalleri, “Cultura & Libri”, nn. 16-17, 1986), tipica delle raccolte successive al Passaggio che affrontano i grandi temi esistenziali (la morte, Dio, il Male).
Se a fronte o di fianco (decideremo alla fine) di questa interpretazione, lucida e a prima vista convincente, della Dei poniamo le testimonianze del poeta sul suo percorso poetico, ci accorgiamo però che non è facile avere un quadro chiaro di Caproni e della sua poesia, e che, per comprendere questo poeta, sulla cui “ateologia” e “nichilismo” è stato detto molto, è opportuno porre la questione diversamente, rovesciando (come si suol dire) il bicchiere, da mezzo vuoto a mezzo pieno.
Siamo proprio sicuri che il percorso del poeta, verso la massima semplicità, non sia maturato in seguito a fratture e suture profonde, tanto che hanno inciso nella continuità della poetica? L’immagine che di sé diede Caproni una volta (cfr. F. Camon, Il mestiere di poeta, Milano, Lèrici, 1965, pp. 127-136) ci mette sulla strada giusta per capire quello che in effetti non poteva essere spiegato perché era già detto in versi:
“C’è stato un movimento, se si può dire, a fuso, ‘fusolare’: ero partito da una scarnificazione ancora di carattere impressionistico, macchiaiolo, che pian piano si è amplificata e gonfiata nel poemetto, nell’endecasillabo, nel sonetto: finché, poi, forse anche per il trauma della guerra, mi è venuta la saturazione di quelle forme, troppo ampie, e allora ecco il bisogno di tornare alla massima semplicità possibile. Il rumore della parola, a un certo punto, ha cominciato a darmi terribilmente fastidio”.
[…]
“L’unica ‘linea di svolgimento’ che vedo nei miei versi, è la stessa ‘linea della vita’: il gusto sempre crescente, negli anni, per la chiarezza e l’incisività, per la ‘franchezza’, e il sempre crescente orrore per i giochi puramente sintattici o concettuali, per la retorica che si maschera sotto tante specie, come il diavolo, e per l’astrazione dalla concreta realtà. Una poesia dove non si nota nemmeno un bicchiere o una stringa, m’ha sempre messo in sospetto. Non mi è mai piaciuta: non l’ho mai usata nemmeno come lettore. Non perché il bicchiere o la stringa siano importanti in sé, più del cocchio o di altri dorati oggetti: ma appunto perché sono oggetti quotidiani e nostri “.
[…] Certo, non è in nome di un nuovo realismo che egli parla di bicchieri, di stringhe (che, a dir la verità, sono rare) e di altri “oggetti quotidiani e nostri”; e non è in nome di un preteso tradizionalismo che egli si sforza di esaudire la ricerca e la sperimentazione di una nuova forma poetica, opponendo alla pressante esigenza di comunicare qualcosa al lettore la “massima semplicità possibile”.
Eppure è proprio in questo tentativo che la poesia di Caproni mostra dall’interno, cioè in rapporto al contesto e alla vita, la sua “linea di svolgimento” e la sua continuità; di ricerca (forse non di poetica). E’ così che la poesia viene sempre più scarnendo, la sintassi si riduce all’essenziale, e i dettagli e gli oggetti risaltano meglio, come in un corpo disseccato sono più visibili le sporgenze delle ossa.
La punteggiatura
La punteggiatura assume una funzione prevalentemente ritmica e intonativa, serve più a scandire il verso e a disseminare trappole, deviazioni, lacerazioni, che a pausare ed armonizzare il fraseggio.
La rima, l’assonanza, l’allitterazione
La rima, l’assonanza, l’allitterazione diventano il perno centrale, il cardine attorno cui ruota il testo, o (per rendere più dinamica e caproniana l’idea) la sua chiave musicale.
2. Ma scendiamo in concreto nella nostra tesi riprendendo un’osservazione di Italo Calvino (in un intervento del 1980, oggi noto come Il taciturno ciarliero, in Genova a Giorgio Caproni, Genova, Edizioni S. Marco dei Giustiniani, 1986) sul fatto che in Caproni il Nulla non si contrappone al Tutto ma al Poco. Più che la narratività, rilevava lo scrittore, in Caproni colpisce la “teatralità” dei personaggi e del poeta stesso: la “recitazione”, senza magniloquenza, anzi con ironia e grazia, “procede ora con rapidi raccourcis e movimenti ellittici, ora attraverso una parlantina divagatoria, indugiante sui dettagli”.
Teatralità
[…] Si ha quasi l’impressione di ‘leggere’ un continuo cantabile per tenore o basso, a seconda dei casi, misurando con il recitativo secco un copione degno invece di essere cantato. Pare che Caproni stia attento alla ‘distrazione’ del lettore. La teatralità, la gesticolazione sonora è un’illusione (altrimenti il poeta avrebbe scritto dei drammi): un’illusione fondamentale però nella poetica di Caproni.
Essa è prodotta dall’impiego continuo di una serie di verbi e di espressioni verbali attinenti al campo – si passi il pasticcio – dell’espressione verbale: i personaggi diventano attori, i soliloqui monologhi o “prosopopee”.
Il verbo “dire”
Il verbo “dire” pare il verbo più frequente nelle ultime raccolte di Caproni. Tanto frequente nei testi che leggiamo, tanto quotidiano nella nostra vita, che alla fine passa inosservato. Ed è esso invece il verbo portante del nostro essere nel mondo: se non lo diciamo, non possiamo neppure dire di non esistere o chiederci se esistiamo.
Catene di verbi
Accanto a “dire”, nel suo usuale significato, si dispongono diverse serie di verbi, di area semantica comune o affine, nel contesto in cui essi vengono adoperati (espressione di un discorso, di un pensiero, di una parola): i verbi neutri “domandare”, “parlare”, “pensare” etc.; i verbi coloriti “squillare”, “gridare”, “strillare”, “cantare”, etc.; e quei verbi tipici intercalati nel discorso per richiamare l’attenzione dell’ascoltatore (“pare”, “crede”, “vedi” etc.).
Queste tre catene di verbi attirano dietro di sé altre catene di verbi: quella dell'”ascoltare” e dell'”udire”, molto importante perché non sempre nelle poesie di Caproni c’è qualcuno che ascolta; e quella dello “scrivere” e del “leggere”, più trascurata, perché sembra che i personaggi preferiscano comunicare a voce o dialogare.
Attorno a questi pochi verbi si formano numerose associazioni e famiglie di sostantivi, aggettivi, senza escludere ovviamente quelli deverbali, che si dispongono tutti attorno disegnando un cerchio aperto di lemmi legati alla sfera dell’udire (quando la parola è orale) e del vedere (quando la parola è scritta): nel primo caso abbiamo, “suono”, “rantolo”, “lamento”, “fiato”, “pianto”, “urlo”, e qui includerei anche il linguaggio degli animali (ma non lascerei fuori il “silenzio”, che talvolta ha il valore di una pausa musicale: p. es. il “silenzio ossuto” di – si badi al titolo – In bocca, MT); nel secondo caso, siamo a contatto con l’ambiguità del segno, che è non solo “parola” “nome”, “ònoma”, “nota (musicale)” (e si sa quanto sia importante la musica nelle poesie di Caproni), “simbolo”, ma anche – è un elenco a casaccio – “orma”, “traccia”, “segnale” (di fumo e di altre cose), “battito” (del piede o delle dita o del cuore), e così via.
Un cerchio più su di questi disporremo un altro gruppo di verbi che riguardano il “corpo” del parlante (o del significante) e dell’udente, i suoi strumenti (compresi naturalmente quelli musicali), il suo ambiente: “mano”, “bocca”, “labbra”, “dita”, “piede”, “penna”, “tamburo”, “libretto”, “scrittoio”, che richiudono, circolarmente, il mondo creato dal poeta su se stesso.
Pur obbligati a fermarci qui (rimandiamo i migliori esempi nel corpus dei testi scelti e tradotti), non dobbiamo dimenticare che talvolta chi parla usa riportare le parole degli altri, con il discorso indiretto libero (ovvero la parola dentro la parola), il che accresce la tensione drammatica.
Sia consentito rimandare a Il vetrone, per passare a parlare di quel “Poco” di cui dicevo prima. L’esempio è ne Il muro della terra. Dopo i “tre vocalizzi per cominciare” (un cartello, una scritta che dice “confine”, e dà la “falsa indicazione”, che è però quella “giusta”), e una breve visita allo scrittoio (dove la condizione dell’uomo “solo, / chiuso nella sua stanza. / Con tutte le sue ragioni. / Con tutti i suoi torti”, è appunto quella di parlare ai morti), Caproni ci porta dei testi che colgono, in forma di prosopopea (Finita l’opera) e di conversazione, mista di discorso diretto e indiretto, gesti e segni (Il vetrone), il senso della misura delle cose nella “disperazione / calma, senza sgomento” di tutti i giorni.
Prosopopea o personificazione
3. Dispositivo retorico, tanto enfatico quanto ironico e non privo di grazia, la “prosopopea” è usata da Caproni proprio per dare concretamente profondità allo spazio nel quale egli si muove, o nel quale egli fa muovere e parlare i suoi personaggi.
Il congedo del viaggiatore cerimonioso
Pochi ma essenziali oggetti creano il mondo di un personaggio angosciato ma stranamente loquace, “cerimonioso”. La prosopopea più nota è, appunto, quella del “viaggiatore” che si congeda da compagni del suo scompartimento: egli è arrivato alla sua stazione, prende la valigia, la scarica nel corridoio, saluta ad uno ad uno i suoi occasionali amici, augura buon proseguimento… La metafora esistenziale è persin troppo evidente, ma non c’è nulla di stonato: il significato, che il lettore alla fine è indotto a tradurre, si mantiene su un livello di inquietante leggerezza, come se gli oggetti, gli atti, i gesti, le parole, del viaggiatore non fossero soltanto il supporto di una metafora alta ma l’essenza stessa del nostro rapporto con questa metafora. Sì, dietro la compunta svagatezza del viaggiatore possiamo riconoscere l’uomo che capisce di aver chiuso il suo breve viaggio terreno; ma quello che resta poi nella memoria è l’aria della stazione, la lieta conversazione che c’è stata, il mondo dei treni con tutto quello che effettivamente si pensa e si fa in quel mondo. Quello che Caproni ottiene, in questo modo, è uno spazio oggettivo di sentimenti, non tanto simbolico ed ermetico, quanto allegorico e surreale benché sembri in tutto simile alla realtà.
Partiture frammentate
A tal fine Caproni può usare un procedimento contrario alla prosopopea. Con questo procedimento coinvolge altri personaggi in uno spazio sempre ristretto ma essenziale, dove essi parlano, si muovono, si inseguono, o sono in attesa di comunicare (cosa a volte un po’ difficile, perché può capitare che qualcuno di loro sia morto). Il franco cacciatore e Il Conte di Kevenhuller sono in pratica costruiti come due lunghi poemetti frammentati e scheggiati (entrambi dall’aria di libretti d’opera) i quali propongono una trama, dei personaggi, atti e intermezzi, scenari fissi, insomma un mondo. Ed è quello che resta dopo la lettura: l’impressione di non aver attraversato un mondo di pure idee e concetti ma fatto di cose, animali, uomini, emblemi, nomi, ombre (ricordate i bicchieri, le stringhe…?), una fiaba, forse, assurdamente simile alla nostra realtà.
Questa situazione paradossale provoca un particolare tipo di lettura: tutti i testi, nonostante la loro estrema frammentarietà, si legano tra loro in un discorso complessivo. Leggiamo, per esempio, Rinunzia: “L’ho seguito. // L’ho visto. // Non era lui. // Ero io. // L’ho lasciato andare. // Incerto, / ha preso il viottolo erboso. // Con un balzo è sparito / (ero io, non lui) / nel fitto degli alberi, bui” (CK, p. 625).
Si parla evidentemente di un inseguimento, di una fuga, ci sono due personaggi e un paesaggio fatto di un viottolo erboso, un bosco fitto, il buio. Questo “altrove”, già occupato da oggetti, letto nel contesto della raccolta, si arricchisce di altri illuminanti dettagli: quel “balzo” non è solo una metafora, ma il segno di una siepe o di un muro da superare; l'”io” e il “lui”, e la loro intercambiabilità, trovano giustificazione nel sistematico avvicendamento dei personaggi agenti e agiti sulla scena, dalla loro inidentità. Anche il buio, il bosco, il viottolo non è la prima volta che compaiono. Insomma, dietro l’intrico di questioni filosofiche e teologiche sollevate da un semplice testo non vi è il vuoto, il nulla; al contrario, si scorge una meticolosa ricostruzione dello spazio poetico, così meticolosa che, pur essendo niente affatto realistica, essa richiede un’attenzione speciale.
Ora dovrei aprire una breve parentesi su due testi che esemplificano quanto detto: L’ultimo borgo (FC) e Un niente (CK) […] Si faccia attenzione a come l’ambiente, nel quale è svolta l’azione – in entrambi i casi un’azione statica, di attesa quasi indolente, apatica – sia ricostruito con cura, soprattutto nel primo testo (che ha poi intitolato la raccolta antologica della poesie di Caproni 1932-1978).
Qui il “tavolo”, l'”osteria”, la “strada lunga”, i “sassi”, le “crepe dell’asfalto” etc. disegnano un paesaggio di tutti i giorni, o che è possibile incontrare un giorno qualsiasi, un paesaggio secco ed essenziale (come si ama ripetere), ma nella sua secchezza ricco e nella sua quotidianità irreale.
Non è una cosa eccezionale che tra i due testi, distanziati negli anni (il primo del ’76, il secondo dell”83), difatti inseriti in due raccolte diverse, si notino delle somiglianze, sia in alcuni particolari del paesaggio sia nell’immagine della cascata.
Non c’interessa appurare se Caproni, dal Congedo in poi, lavori su un campo ben definito di temi e in modo quasi ossessivo. Conta che in entrambi i testi leggiamo uno sforzo a parlare, scaturito dalla ricerca inutile della preda o dall’attesa di un’impossibile comunicazione con gli amici, ormai trapassati, che risulta vano.
Lo spazio, con i suoi paesaggi scarni e paradigmatici (il bosco, il fiume, il vallone, la gola, la siepe, il muro, i sassi, i viottoli etc.), con i suoi interni dalle linee precise e schematiche (la latteria, l’osteria, la stanza dello scrittore), scandagliato e rovistato dal poeta, dalle sue controfigure e alter ego, nonché dai suoi personaggi, ora si riempie di silenzi violenti ed esplosivi, o di parole, suoni, segnali, gesti, rantolii, che cercano di rimettere in gioco il discorso sul niente, così come conclude Un niente (“Un soffio… // (Non è paura.) // Di tutto l’avvenimento, in mente / appena // (a pena) // un niente”).
In Il vetrone il poeta ricorda il padre dalle parole e dai gesti, ma è il silenzio finale di una parola, la sua cancellazione, o rimozione, che ci fa tornare indietro nel testo a ripescare tra le possibili rime quelle mancanti. La parola cancellata pare essere “morire”, che, non è casuale, rima con “dire” (“Non c’è più tempo, / diceva, non c’è / più un interstizio – un buco / magari – per dire / fuor di vergogna: “Babbo, / tutti non facciamo altro / – tutti – che “): il poeta, per restituire l’impossibile conversazione con il padre con un’immagine, visualizza proprio il termine dell’assenza definitiva, cioè la morte, cancellandone l’immagine tipografica, oggettivando la spaziatura.
Così la morte, ontologia negativa per eccellenza, già parola, oggetto, ora non potendo essere identificata, né pronunciata, né visualizzata, diventa silenzio, silenzio dei tasti sul foglio: essa è quel Poco che noi uomini, se non vogliamo parlarne, possiamo sottintendere, e non è il Nulla.
Anche il paradosso in molti testi di Caproni esprime la possibilità di parlare ancora del mondo e di cercare in questo un Poco di ragione. Si prenda, per esempio, Ritorno (MT): “Sono tornato là / dove non ero mai stato. / Nulla, da come non fu, è mutato. / Sul tavolo (sull’incerato / a quadretti) ammezzato / ho ritrovato il bicchiere / mai riempito. Tutto / è ancora rimasto quale / mai l’avevo lasciato”.
Se Caproni ritenesse la ragione uno strumento del tutto inadeguato a comprendere il mondo, lo sbocco non sarebbe il paradosso, il ragionamento stringente, la conseguenza non conseguente o incongruente, ma il silenzio totale, in ogni senso.
Al contrario, il paradosso, l’aforisma, l’antifrasi, il contraddetto rendono certi di quel Poco – poco di ragione – che all’uomo resta. Questo non è “minimalismo”, o anti-illuminismo o anti-umanismo, né d’altra parte razionalismo o logocentrismo (per usare un contrappunto di termini filosofici chiamati in causa, non sempre a proposito, nell’esegesi di Caproni): è tagliente ed astuta paradossalità della poesia.
4. In breve e per concludere […] mi riallaccio a quello che dicevo sul percorso poetico di Caproni e mi chiedo se questo Poco sia un concetto estraneo al primo e al secondo tempo di Caproni. Certamente no, ma sarebbe utile precisare in che senso ora si usa “poco”, un concetto di “forma”, creato ad hoc per questa lettura.
Vi è il Caproni sospettato di ermetismo (compagno di strada dell’ermetismo? ermetico minimalistico…?) delle prime raccolte, e il Caproni controverso, quasi magmatico, degli anni ’40-’50, che, dopo una fase di ‘ermetismo’ (nel senso letterale) approda a un fraseggio lirico rapido e seducente (“rime chiare, / usuali… / coi suoni fini / che non siano labili / anche se orecchiabili… / non crepuscolari, / ma verdi, elementari”, Per lei, SP), recuperando una leggerezza per certi versi stilnovistica.
In verità è un solo Caproni, che a volte mostra una trasparenza e una levigatezza di espressione tali da convertire l’altezza del pathos in una poesia tenue ma profondissima (ed hanno questo spessore tutte le poesie per Annina, la mamma ricordata nel Seme del piangere, uno dei più bei canzonieri d’amore della letteratura italiana); altre volte, molto lontano dalla “semplicità assoluta” delle ultime raccolte, scava più nella forma che nell’immaginazione e quasi con enfasi esclude la linearità, la concisione, la serena ma sgomenta chiarezza del paradosso, da questo tortuoso incrocio di afflato etico e tensione stilistica.
Così in Cronistoria compare già quel verseggiare più “leggero” ma non meno drammatico, che apre, decisamente, il fronte della successiva ricerca poetica di Caproni. Ne Il passaggio d’Enea vi sono forme testuali diverse dai sonetti e dalle stanze, forme più libere sia nell’uso metrico (versi facili, semplici, rapidi, […]), sia nella sintassi, piana e lineare, senza inversioni ed irte costruzioni di apposizioni ed aggettivi; […] Ma non è una trasformazione improvvisa. In Il passaggio d’Enea questo trobar leu convive con il trobar clus, con risultati di notevole contrasto. […] Insomma il succedersi dei primi due tempi di Caproni pare davvero problematico. Qualcuno potrebbe vederne tre di tempi, se non di più (ma vale la pena?), variamente ripresi e interrotti e intrecciati all’interno di una stessa raccolta; io vedrei una lunga fase di studio di quel “poco” […] al quale il poeta sarebbe giunto dopo aver setacciato altre direzioni. […].
Salvatore Ritrovato
Bibliografia: Come un’allegoria, 1936; Ballo a Fontanigorda, 1938; Finzioni, 1941; Cronistoria, 1943; Il passaggio d’Enea, 1956; Il seme del piangere, 1959; Congedo del viaggiatore cerimonioso, 1965; Il muro della terra, 1975; Il franco cacciatore, 1982; Il Conte di Kevenhuller, 1986; Res Amissa, 1991; Poesie (1932-1991), 1995.
Galleria degli Autori Contemporanei Italiani. Salvatore Ritrovato , PROFILO DI GIORGIO CAPRONI: Il “poco”e il “nulla” nella poesia di Caproni , Bologna-Lovanio, 1996. -http://www.comune.bologna.it/iperbole/assrere/autori/caproni.htm-. Created in Italy by European Board for Expressive Reasearch. All rights reserved.
Tarzan!
Settembre 2012: le letture de “Il Conte di Kevenhüller” saranno pubblicate in vinile dall’etichetta discografica TARZAN RECORDS di Andrea Dolcino e Fabrizio Testa che hanno entusiasticamente sposato il progetto, decidendo di suggellarlo con una pubblicazione commemorativa del centenario della nascita di Giorgio Caproni. Seguiranno eventi di lettura di Giovanni Succi dal vivo, il cui calendario è in via di definizione. Per informazioni sulla pubblicazione e sui readings: eventi@tarzanrecords.com | Ufficio stampa: Letizia Merello.
TARZAN RECORDS, etichetta discografica e piattaforma culturale, si propone di dar voce, esclusivamente in vinile e in edizioni limitate, a musiche di ricerca e sperimentazione così come a progetti incentrati sulla poesia sonora e sul cantautorato. www.tarzanrecords.com
Achille Millo e il seme perduto.
Achille Millo fu una delle voci preferite da Giorgio Caproni, che gli riservò la propria stima ed amicizia. “Ad Achille Millo” si legge sul frontespizio della raccolta “Congedo del viaggiatore cerimonioso e altre prosopopee” (1965).
“Ho sempre pensato che le poesie non andrebbero stampate, ma incise su dischi.”
Questa frase di Caproni, da una lettera ad Achille Millo del 1961, mi spinse definitivamente a tentare il progetto in corso ch’è ora sotto i vostri occhi.
In quel filmato del 1990 (anno della morte di Caproni – io avevo 21 anni e ne ignoravo pure il nome) vediamo Millo leggere elegantemente tre poesie da “Il seme del piangere” (1959). Purtroppo tra inizio e fine dei versi, il commento dell’attore non lascia spazi, non attende un paio di secondi (…chissà, l’emozione dell’evento forse); il che rende l’impressione (apparentemente ingiustificata) di una certa premura… Sarebbe un ottimo lavoro separare l’audio dal video ed isolare le letture dal commento.
Chi ne sa qualcosa?
Nel filmato Millo accenna ad un “disco” fatto “di questo libro” (Il seme del piangere) insieme a Giorgio. Ne riamane traccia? Dispongo da tempo di incisioni di Millo della prima raccolta (“Come un’allegoria”, 1936); ma, nella mia personale caccia, non ho mai trovato nulla d’altro. Chiunque fosse meglio informato e volesse condividerne il sapere sarebbe benvenuto e ringraziato.
Dimenticavo: …e riccamente remunerato*.
* In lingotti di gloria convertibili comodamente ovunque in eterno.
Lettera di Giorgio Caproni ad Achille Millo (attore), 1961
Ho sempre pensato che le poesie non andrebbero stampate, ma incise su dischi.
Roma, 24/03/1961
Gentile e caro Millo, grazie per l’interessantissimo articolo, e per l’aiuto che Ella dà anche alla mia poesia. E vivissimi rallegramenti per i successi, che Le auguro sempre maggiori, per Lei e per la poesia stessa. Ho sempre pensato, come Elliot, che le poesie non andrebbero stampate, ma incise su dischi.
Una poesia scritta è come una partitura musicale.
Una poesia scritta è come una partitura musicale. Non basta conoscere le note per leggerla. Occorre l’interprete, colui che la anima. Troppi lettori sono abituati oggi a leggere la poesia sul ritmo della prosa d’informazione. E le parole (le note!) rimangono morte. Oppure si esagera nel senso opposto, e si aprono le braccia, si strabuzzano gli occhi, si cerca d’impressionare la gente col gesto e l’enfasi ecc. ecc.
La poesia non è finita se non attraverso l’interpretazione
C’è una bellissima pagina di Proust, a questo proposito, in Temp retrouvé. La poesia non è finita se non attraverso l’intepretazione. Ma a trovarli gli interpreti! Ne ho sentiti tanti, anche di gran nome, inorridendo. Lei è uno dei rarissimi, non mi stanco di ripeterlo intorno. E la mia gratitudine per Lei è sincera e grandissima.
Con i migliori saluti,
suo Giorgio Caproni
“Cartolina” di Andrea Barbato sul funerale di Giorgio Caproni (1990)
Fonte: Fondo Walter Binni
http://www.fondowalterbinni.it/primo_piano/funerale_di_Giorgio_Caproni.html
“Cartolina” di Andrea Barbato, trasmessa da RAI3 il 24 gennaio 1990, ore 20,25. La cartolina era indirizzata al sacerdote che aveva officiato il rito funebre.
Caro don China,
ieri, nella sua parrocchia romana del quartiere Montesacro, Santa Maria madre della Provvidenza, ci sono stati i funerali di un poeta, Giorgio Caproni. Era un grande poeta, fra i maggiori del Novecento italiano. Così grande, che lei, don Pietro, ha pensato e temuto per un po’ che la sua chiesa fosse troppo piccola per accogliere l’omaggio della prevedibile folla.
Intorno alla bara di Caproni, c’erano Binni e Petroni, Accrocca e Ombres, Frabotta e Magrelli. Poeti e letterati come lui. C’era il sindaco di Roma Signorello. C’erano i familiari, naturalmente, qualche amico, qualche ex scolaro. Già, perché Caproni è sempre stato un maestro elementare, oltre che un poeta. Solo poche file di banchi si sono riempite, la parrocchia della Provvidenza è rimasta quasi vuota.
Caproni aveva un carattere schivo, viveva appartato, e non si sarebbe rammaricato di quella solitudine. Un rito rapido, un amaro commento del professor Walter Binni sulle assenze del mondo ufficiale, poi tutto è finito. O meglio, tutto comincia ora. Perché un poeta vero – e Caproni lo era – malgrado le assenze oltraggiose, sopravvive. Il fatto che quella chiesa di Montesacro fosse semivuota è solo una minuscola notizia, in una giornata affollata di fatti, di votazioni, di polemiche, di riunioni politiche. La cronaca rimane indifferente.
Eppure, l’assenza di tutti è scandalosa. Dovrebbe far riflettere sul groviglio, sulla confusione di valori che abbiamo creato intorno a noi. Se non c’è lo spettacolo, ha detto Binni, si viene emarginati. La cultura seria non ha cittadinanza, non ha nemmeno onoranze funebri. Non si sa riconoscere neppure dopo la morte chi ha veramente onorato la sua terra. “La poesia di Caproni ha dato un senso alla nostra vita”, aveva scritto Geno Pampaloni. Giusto: ma chi se ne è reso conto? Che l’Italia sia immemore e ingrata con i suoi poeti, lo studiamo nelle storie del liceo. Ed è anche vero che “carmina non dant panem” e che “chi vive di penna vive di pena”. Certo, per un poeta appassionato, ironico, raziocinante come Caproni, è già stato difficile vivere. Ma, a quanto pare, è anche difficile morire.
Ho sotto gli occhi la cerimonia del funerale di Mariano Rumor. Lo stato italiano, praticamente al completo, era inginocchiato nel duomo di Vicenza. Corone, stendardi, corazzieri in alta uniforme. Il presidente della Repubblica, il presidente del Consiglio, il presidente del Senato, quasi tutti i ministri, le massime autorità dello Stato. Un omaggio funebre certamente dovuto all’uomo che è stato per cinque volte alla guida di un governo. Ma quelle solennissime immagini della diretta televisiva da Vicenza, facevano pensare ancor di più, con un’associazione forse impropria, alla sua chiesetta vuota di Montesacro, don Pietro. La morte, lo sapevamo, non è uguale per tutti.
Possibile, insomma, che non si sia trovato un sottosegretario, un viceprefetto, un funzionario della Camera o del Senato, che rappresentasse lo Stato nell’addio funebre a Giorgio Caproni? Eppure, i versi di questo poeta livornese saranno ancora letti, amati, studiati, stampati, quando il potere attuale sarà ridotto in polvere, e dimenticati gli uomini che lo detengono. Possibile che, al di fuori di quella pattuglia di amici e poeti, la grande schiera degli intellettuali italiani, quelli che si affollano a discutere sul nome del Pci ma anche sulla lana caprina, la gente delle giurie e dei premi, la mondanità culturale dei salotti e dei ninfei… possibile che nessuno abbia sentito l’obbligo di salutare Giorgio Caproni? Davvero conta solo il potere, la macchina spettacolare della politica, il modello del successo?
[…] Caproni ha vissuto una vita senza potere, senza aneddoti. Aveva suonato il violino, fatto la Resistenza in Val Trebbia, insegnato ai bambini delle elementari. La sua poesia è stata definita un controcanto ironico, una straordinaria prova stilistica, la testimonianza di un laico appassionato.
L’estate scorsa era venuto qui in uno studio della Rai, a ricordare il ventennio della Luna, che gli aveva ispirato dei versi. Certamente, non avrebbe voluto alcuna cerimonia solenne: ma la vergogna dello Stato assente non è meno bruciante per questo. “Sono giunto alla disperazione calma, senza sgomento. Scendo. Buon proseguimento”, scriveva Caproni.
Chissà se un giorno vivremo in una società che non si vergogni dei suoi rari poeti.
Un saluto da Andrea Barbato.
Refuso sonoro
Nota a margine di “CERTEZZA”
Al tredicesimo verso (!) di questo testo scoprimmo, tardi, un refuso: per errore la voce dice ” […] / – celarsi – dietro la sua morte…/”.
Il testo originale recita invece “[…] dentro la sua morte…/”.
L’errore è umanamente sfuggito ai nostri controlli ed era ormai troppo tardi per tornare in sala di incisione. Resta quindi, dichiarato in nota.
Segnalate eventuali altri refusi! La cosa divertente è che questo fallo (supponiamo – illudendoci – sia l’unico) cade però, infallibilmente, esattamente qui, proprio in questo testo: quello della certezza.
Quello della certezza della caducità.
“Tutte le poesie” (Garzanti 1983), recensione di Gian Luigi Beccaria
Recensione di Beccaria, G.L., L’Indice 1984, n. 1
Giorgio Caproni, Tutte le poesie.
Gli Elefanti, Ed. Garzanti, Milano 1983.La recensione si trova riportata qui.
La poesia è (pare un assurdo) quanto di meno irrilevante, di più terrestre e di maggior tenuta circoli tra gli uomini, e proprio oggi, in una civiltà che promuove l’oggetto, invece, di rapido consumo, l’oggetto-lusso, l’oggetto destinato a cambiare, destinato a essere utilizzato. Il più inutile (la poesia appunto) è proprio quanto continua a restare, quello che è cambiato di meno, da Omero a oggi: di tutti gli oggetti (e non solo artistici) il meno provvisorio. Un libro come quello di Giorgio Caproni, che raccoglie tutti i componimenti suoi scritti in un cinquantennio di attività (1932-82), è lì a dimostrarcelo, nel suo volume, nella sua consistenza, nella sua altezza suprema.
A questo libro (non ne sono usciti poi molti in Italia, nel Novecento, di pari altezza) è delegata la dimostrazione di quanto or ora dicevo, e la dimostrazione della tenuta grandiosa che ha inoltre la poesia di fronte a tanto inesorabile cancellarsi, oggi, di identità individuali e collettive, di fronte al progressivo sgretolarsi di ogni etica personale e comunitaria. E forse, tanto più perché in Caproni la dimensione sociale, l’ideologia istituzionalizzata è “sentita fuori della storia e come privatizzata” (Mengaldo): soltanto sopra tutto la vita di tutti i giorni è, nella sua poesia, il luogo dell’autenticità, della totalità della vita.
Fisica e metafisica
La poesia di Caproni, nelle prime raccolte, è tutta fisica-esistenziale; nell’ultime, metafisica. Ma vi corre un filo di continuità. È entrato con naturalezza, prima nell’elegia della vita quotidiana e nel fantastico del ricordo (sua madre giovane e Livorno, ne “Il seme del piangere”), poi, nella maturità, con altrettanta naturalezza, nei luoghi misteriosi dell’Aldilà e dell’altrove (“Il muro della terra”, 1964-75; “Il franco cacciatore”, 1973-82). Una naturalezza, prima nei versi in origine musicali, poi nel quasi parlato della scansione netta, nei versi più incisi. Un’essenzialità prima nel cantabile, poi nella sentenza. Nessuno come lui ha saputo prima cantare e narrare insieme, poi narrare e continuare a cantare, insieme.
Narrazione esistenziale
Narrare: ma non c’è alcun dubbio che la poesia è traffico coll’inconscio, e che poesia non è lucidità raziocinante, esposizione, prosa. Eppure, se le sensazioni oscure sono per il poeta le più interessanti, è a condizione che le renda chiare: “se percorre la notte – scriveva Proust -, lo faccia come l’Angelo delle tenebre, portandovi la luce”. La luce a Caproni viene anzitutto dalla linea esistenziale (e non orfica) della sua lirica, che partecipa direttamente un’esperienza, una biografia, e quell’esperienza, quel suo vivere, comunica in parola “fraterna”, non ingolfata nei labirinti del manierismo, nell’esasperazione della tecnica, nel feticismo del significante. Il lettore medio difatti non si è forse arreso talvolta alla poesia contemporanea come di fronte a un gioco di parole che non lo informano più? Caproni invece coinvolge tutti, l’addetto e il lettore meno provvisto di sapienza critica. È una delle grandi eccezioni novecentesche in questo senso.
Indenne tra le mode
Con l’incanto popolare della sua pronuncia attira chi principia a leggerlo, e più non lo lascia. Caproni, fedele al principio della continuità della poesia, anche negli anni in cui avanguardie sembravano averne svuotato la stessa idea, è passato indenne tra le mode. È difficilmente classificabile (“uno degli uomini più liberi del nostro tempo letterario”: così Pasolini, il primo ad averne parlato compiutamente in un saggio). Con imperterrita coscienza del suo dono (l’essere poeti, è prima di tutto – dice – una qualità quasi fisiologica) ha continuato a produrre versi che da cinquant’anni circolano, sono letti, aperti a tutti, amati, consumati, e non solo da pochi intendenti sacerdoti dell’ineffabile.
Senza ricadere nel solenne
Senza ricadere nel solenne, nel classico, ha tenuto fermo un aggancio forte con la tradizione e con la popolarità: popolarità e tradizione di struttura anche, se pensiamo al punto d’attacco che Caproni ha mostrato con la ballata antica, coi modi del melodramma, con la canzoncina arcadica, una canzonetta rinata robustamente nei suoi versi brevi, e l’assunzione della rima facile e insieme sapiente. E poi la popolarità, il quotidiano delle situazioni: forse soltanto Saba ha saputo nel Novecento, come Caproni, rappresentare con altrettanto disincanto ambienti popolari, o la città in certe ore del giorno, l’alba soprattutto, i rumori, i suoi sapori, colori, odori.
Senza ricadere nel solenne, dicevo, è riuscito, non negli esordi soltanto, ma ancora nelle ultime cose, a ricercare e a proporre la dizione, la costruzione del discorso poetico, con una forza di concentrazione formale inarrivabile (oggi soltanto Zanzotto sa costruire come lui sonetti in tensione, compatti e snodati, di inarcatura unica). Certo, pochi come Caproni sanno chiudere un sonetto, ma soprattutto, come ancora notava Pasolini, aprire una lirica, con tensioni interiettive subito sorprendenti. Solennità, e nello stesso tempo raso-terra, semplicità di una quasi-prosa nei suoi versi melodici e parlati, squisitezza e facilità, fine e popolare magistralmente congiunti.
Musica nuova eppure tonale
Caproni ha tardato rispetto a coetanei suoi (è nato nel ’12: compagni di generazione, Attilio Bertolucci, Vittorio Sereni, Mario Luzi; Sinisgalli, Libero de Libero, Alfonso Gatto sono di qualche anno maggiori) ad entrare nel gusto della critica ufficiale. La sua poesia è apparsa facile a volte, innocente, quasi povera, cantabile, d’istinto (“Mia mano, fatti piuma: / fatti vela; e leggera / muovendoti sulla tastiera, / sii cauta. […] Sii arguta e attenta: pia. / Sii magra e sii poesia / se vuoi essere vita./ […] sii fine e popolare…” ” Battendo a macchina”). In effetti il suo ritmo è anche spezzatura e segmentazione artefatta, scarto fonico e ritmico, dissonanza improvvisa, dinamismo e turbine, apparenza di cantabilità e di facilità: un procedere franto ma tenuto su da iterazioni che accumulano tensione. ” Trascinante dolcezza” (Raboni). La tradizione melodica del tradizionale s’intarsia di oralità, di parlato. Caproni fa musica nuova senza abbandonare il tonalismo.
Il primo Caproni
L’antologia garzantiana del ’76 è oggi quasi introvabile. Il nuovo volume edito ancora da Garzanti ci dà ora la possibilità (con l’aggiunta degli inediti “Versicoli del controcaproni” e dei meno noti “Erba francese”) di ripercorrere il cammino intero del poeta. Il più quotidiano delle situazioni, delle occasioni, il più semplice dello stile, o i più intensi e drammatici interrogativi ultimi (la ricerca e l’inutilità della ricerca di Dio, alla fine del libro) compongono un itinerario poetico di grandiosa estensione. Nelle prime raccolte, una geografia, una toponomastica precise (la mirabile Livorno dell’infanzia, la Genova struggente della giovinezza), e il gusto intenso del vivere, dei colori nelle vie animate, e la capacità di “epopea” anche nel casalingo, e di registrazione dei più minuti dettagli del comportamento, senza scadere neppure per un attimo nell’annotazione, tantomeno in squarci di cronaca (Calvino ci ricordava quell’intera strofa del “Congedo del viaggiatore cerimonioso” dedicata al gesto di togliere la valigia dalla reticella e posarla nel corridoio all’avvicinarsi della stazione), e, sempre, una grazia narrativa inarrivabile.
Il secondo Caproni
Nelle due ultime raccolte, invece [l’articolo è del 1984, Il Conte di K. uscirà nel 1986. – Ndr], il grande tema della poesia e della filosofia contemporanea, il nulla, esposto senza enfasi, magniloquenze. Nichilismo calmo, senza retorica, riservatissimo. Torna il tema allegorico del viaggio, caro a Caproni. Un viaggio che lo porta in nessun luogo, o in posti nebbiosi, assurdi, vuoti, di cui non si può aver notizia, “luoghi non giurisdizionali”: è il regno dei morti senza resurrezioni, il regno dove dovrebbe stare un Dio inesistente, un regno vuoto, terra desolata, di paesi distrutti, abbandonati, dove regnano immobilità e silenzio, salvo il vento. Un luogo buio. Dopo il buio non c’è luce. Dio è raggiunto attraverso la sua negazione, in questa proclamazione poetica del nulla. Eppure la radicale asserzione d’inesistenza non ha nulla in Caproni di amaro , di disperato […]. Sono versi in cui Caproni si congeda dal mondo, si avvicina al confine, un confine che non lo separa da nulla, che non divide lui vivo dalla speranza di un Dio negato.
Frontiera
La sua è la religione del vuoto, descritta, commentata con dizione mirabile in luoghi di frontiera, in terre di nessuno dove s’incontrano soltanto guardiacaccia, osterie solitarie, cacciatori sconosciuti, e tutto è solitudine, dolore, addio di un uomo ancora in viaggio o in fuga.
Gian Luigi Beccaria, L’Indice 1984, n. 1 (La recensione si trova riportata qui).
“L’opera in versi” (Meridiani 1998), recensione di Vittorio Coletti
Recensione di Vittorio Coletti, L’Indice n. 8, 1998
Giorgio Caproni, l’opera in versi. Edizione critica a cura di Luca Zuliani, Introduzione di Pier Vincenzo Mengaldo, Cronologia e Bibliografia a cura di Adele Dei.
I Meridiani, Ed. Mondadori, Milano, 1998.La recensione si trova riportata qui.
Ora anche Giorgio Caproni, come Montale, ha la sua “Opera in versi”, impeccabile edizione critica nei “Meridiani” delle sue poesie (non poche le inedite), con un apparato che ne illustra le varie fasi di elaborazione e di stampa e che fornisce, con grande generosità, molto materiale (ma corre voce di un diario dell’autore tenuto finora nascosto dagli eredi; la sua disponibilità avrebbe ulteriormente arricchito l’importante sezione degli autocommenti) utile a conoscere l’occasione, il senso, la destinazione di ogni componimento. Poiché, diversamente da Montale, Caproni si è speso di più e nascosto di meno, l’abbondanza dell’informazione offerta è straordinaria e persino un po’ sgomentante, anche se, nel gran mare, il curatore Luca Zuliani si è mosso con una perizia e una chiarezza ammirevoli e graditissime al lettore, che trova anche nella cronologia e bibliografia della benemerita Adele Dei un eccellente strumento di lavoro.
Voluto persino nel titolo, l’accostamento a Montale si impone e, per chi lo volesse approfondire, si può segnalare, fresco di stampa, l’ottimo volume di Luigi Surdich “Le idee e la poesia. Montale e Caproni” (il melangolo, Genova 1998, pp. 267, Lit 28.000), che utilizzeremo qui ripetutamente.
Montale / Caproni
Surdich, che è tra i migliori interpreti di Caproni, mette in rilievo i punti di contatto esterni e interni tra i due poeti; ma la sua ricerca di convergenze e somiglianze risulta, a ben vedere, anche un catalogo di incomponibili differenze. Basti solo il cenno, da lui fatto, a due dati, per così dire, oggettivi: 1) entrambi i poeti hanno prolungato la loro esistenza con un libro postumo: ma a fronte delle altezze metafisiche di “Res amissa”, gli stucchevoli giochetti montalian-cimiani del “Diario postumo” (per tacere della penosa farsa del legato testamentario che lo ha accompagnato) sono davvero impresentabili, anche a selezionare solo le cose meglio riuscite; 2) la porzione quantitativamente più ampia delle loro poesie, i due poeti la compongono dagli anni settanta in poi; ma anche questo, lo nota bene Surdich, è un “parallelismo rovesciato”, perché, se il Montale da “Satura” in giù scrive il “verso” di quel libro il cui superbo “recto” era sigillato nei tre capolavori della prima stagione, Caproni, con la trilogia “Muro della terra”, “Il franco cacciatore” e “Il Conte di Kevenhüller” (cfr. “L’Indice”, 1986, n. 10), scrive, se vogliamo continuare l’immagine, il “recto” intensissimo di un libro di cui prima, più confidente nelle cose e nel mondo e meno culturalmente attrezzato, aveva fornito, per altro splendidamente, il più disteso “verso”.
Il primo Caproni
Quest’ultima osservazione serve anche a fare i conti con l’introduzione al volume. Qui Pier Vincenzo Mengaldo ripercorre magistralmente la vicenda interna dell’opera poetica caproniana, con un’attenzione per metri e linguaggio da par suo. Mengaldo ha messo in chiaro anche la differenza che corre tra il primo e l’ultimo Caproni, pur ritrovando, acutamente, qualche filo rosso; ad esempio, nel suo essere dall’inizio alla fine “un “decostruttore”, sia o meno questo carattere in rapporto con una percezione del mondo come giustapposizione di fenomeni che il soggetto non sa o non vuole sintetizzare”; nella vocazione alla serialità e alla variazione, nonché alla narrazione, il cui frutto più vistoso è la ricerca del libro organico, della misura poematica; nella ribadita “ontologia negativa”; nel costitutivo (anche se sempre più stilizzato e metafisico) realismo. Ma c’è un punto in particolare, nell’introduzione di Mengaldo, che merita di essere discusso: l’affermazione che “Il seme del piangere è forse il punto più alto toccato da Caproni”.
Il più autorevole studioso della poesia novecentesca elegge, così, come sua più congeniale, una raccolta degli anni cinquanta, che appartiene cioè, per riprendere la metafora di prima, ancora alla stagione del “verso”, della scrittura caproniana più distesa e raccordata. Ora invece, molti lettori (cito, tra gli altri, proprio Surdich) non esitano a sostenere che è il Caproni più frantumato ed ellittico degli anni settanta-ottanta a scrivere, con la trilogia surricordata (anche a tacere dell’incompiuta e postuma “Res amissa”), i più bei testi della sua poesia e i più importanti di tutto il nostro (secondo?) Novecento. La predilezione di Mengaldo per il “primo” Caproni, però, non stupisce, e io la spiego (anche) con ragioni generazionali.
Il secondo Caproni
Il “secondo” Caproni è il poeta del dopo-Novecento, o, se vogliamo, di un Novecento che si è formato su paradigmi culturali non noti o rifiutati dalla critica letteraria della generazione dei Mengaldo: intendo i paradigmi del pensiero negativo (da Heidegger a Blanchot), che, frequentati dalla filosofia, sono stati visti con sospetto e distacco dalla critica, storicista o formalista, ma sempre, per così dire, positiva, storicizzante, antimetafisica. I più giovani (penso, su tutti, al finissimo Enrico Testa), invece, hanno familiari quegli autori e quelle coordinate culturali (recuperate in piena fase di rigetto delle ideologie e delle certezze generali) e sono quindi capaci di una lettura più immediata, di una più diretta sintonia con un poeta ad alta densità metafisica come l’ultimo Caproni. La generazione nata nella prima metà del Novecento ha il suo poeta in Montale (della “Bufera”, soprattutto) e, al massimo, può spingersi fino a Sereni: autori in cui è sempre forte, prima e più della componente filosofica, la dimensione etica (anche se non politica); in cui l’orizzonte degli eventi è quello storico concreto; i riferimenti sono a principi culturali primonovecenteschi (razionalità/irrazionalismo, politica e storia, ecc.).
A misurare la differenza di referenti e di consapevolezza filosofica tra Caproni e Montale basterebbe osservare (sempre servendoci liberamente di Surdich) come i due si misurino col problema del linguaggio, a proposito del quale entrambi si chiedono se è un mezzo o un limite della conoscenza umana. Se per Montale la parola è qualcosa che “approssima ma non tocca” (e dunque conserva un minimo di valore, per quanto povero, incerto), per Caproni, che va al fondo teoretico della questione, è qualcosa che nega e distrugge (“Il nome avvicina alla morte? / No. Il nome è la morte”) e quindi è pura negazione, sottrazione. Stessa cosa si potrebbe notare considerando come la forma ossimorica del reale (“la morsa dell’Equazione” “fra il Tutto e il Niente”), affermata da entrambi i poeti, sia segno in Montale (anche) della debolezza conoscitiva dell’uomo o del degrado morale della modernità, mentre in Caproni è (solo) indice della costitutiva “in-differenza” dell’Essere pervaso dal Nulla fin dall’origine. Caproni è tutto interessato a sondare le dimensioni dell’abisso e non è disposto (al limite della spietatezza) a lasciarsi confortare da umane solidarietà (come Sereni) o da speranze improbabili (come Montale).
Dal “Muro della terra” in poi
Dal “Muro della terra” in poi (ma, in forma forse un po’ troppo esplicita e predicatoria, già dal “Congedo del viaggiatore cerimonioso”), ha preso a scrivere il dramma, a teatralizzare la sconfitta dell’umana ricerca di senso e di salvezza e a disegnare, con ostinazione e in immagini di straordinaria suggestività (per una somma di concretezza e di assoluto perfettamente ricostruita nei suoi addendi da Surdich), la fine di ogni speranza di razionalizzazione, la riduzione di ogni residuo margine di dubbio, l’avanzata non più contenibile del Nulla. E non ha nascosto (in questo ben più acuto e spregiudicato di tanti filosofi) che il predominio del Nulla equivale alla vittoria del Male, risolvendo (e spostando) così il conflitto etico di sempre nella fondazione ontologica della fuga, della sconfitta, della perdita del Bene (ecco dove mirava, già dal titolo, “Res amissa”). La scoperta del Niente originario è resa alla morte e alla violenza; contro di esse non c’è rimedio, né possibilità di opposizione (non ci sono, in lui, miracoli né ironia, semmai una fiera e straziata “allegria”).
Per questo, l’ultimo Caproni è uno dei maggiori poeti dell’età del dopo Auschwitz, che ha misurato l’enormità del male (l’accostamento a Celan è, ancorché solo in parte, ammesso, e proprio per questi aspetti) e assistito alla caduta di tutte le illusioni razionalistiche che speravano di rimuoverla o dissimularla. Per questo, credo, è l’autore più istintivamente congeniale ai giovani che entrano nel nuovo secolo, da essi amato, addirittura, come dice Mengaldo, “con punte di culto”.
Vittorio Coletti, L’Indice n. 8, 1998 (La recensione si trova riportata qui).