RICONOSCENZA

Tenetevi forte, ho fatto due conti e sono cifre grosse per un blog così drammaticamente privo degli ingredienti di successo dell’era del web 2.0 (razzi e mazzi, vette e muli).

Do ufficialmente i numeri.

Questo audioblog registra in media 24 visite al giorno dal maggio 2011, per un totale di ventiquattromila e spingi accessi. Così anche dal 16 aprile dell’anno scorso ad oggi, data dell’ultimo post: quel VALE PECUNIA che proponeva una libera donazione.

Nell’arco di quest’anno il blog si è preso una pausa (…ho avuto un po’ da fare in giro), ma ha registrato 3.718 graditissimi ospiti. Di questi ben quattro si sono dati all’azione, facendo valere la valida e mai vile pecunia a mio sfacciato favore, donando la somma complessiva di ventisei euro (26,00€) esentasse, puliti.

Il successo può dare alla testa.

Il dato mi esalta e mi incoraggia a continuare. Non so se mi spiego: ben quattro persone mi hanno donato in media 6,5 gocce del loro sangue in un anno, il che è tantissimo e tra poco ne dimostro il motivo. Ma prima è il turno della lettura odierna, perché si ricomincia (avrei ricominciato comunque) e arriveremo fino in fondo; e guarda caso, questa di oggi si intitola proprio Riconoscenza.

Coltivatori/macellatori.

Visitatori (da aprile 2013 ad aprile 2014): 3.718
Donatori: 4 (eroici, fantastici: grazie!)
Provenienza: Fidenza, Brescia, Bologna e Bibbiena.
Ricavo totale: 26,00€
Media per donazione: 6,5€

Per ringraziare i miei quattro lettori preferiti ho una piccola sorpresa. Vorrei risparmiare loro la fatica dell’occhio sullo schermo quindi tutto il testo che segue, se desiderano ascoltarlo, glielo leggo. Ovviamente potrà ascoltare chiunque, ma è grazie a loro.

Accendo un microfono casalingo, proprio qui, adesso, e comincio. Il risultato audio è un po’ grezzo, si sente: un piccolo presente, ma sincero. (Anche questo file è su Soundcloud). Click su play e buon ascolto.

Meglio del Manzoni.

Fantastici Quattro. I miei quattro eroici lettori superano nel mio affetto i venticinque famigerati del Manzoni; lui ci si faceva dell’autoironia, io lo dico sul serio: grazie davvero. I miei quattro lettori attivi mi hanno donato in media più di sei euro ciascuno. Significa che se fossi riuscito a convincere anche solo un terzo dei tremilasettecento della bontà del mio lavoro, al punto da indurli spontaneamente ad offrirmi un caffè pari a questo (con cappuccino spremuta e cornetto), il mio ricavo su questo fronte sarebbe stato di seimila euro (6.041,75€), pari a cinquecento euro (503,47€) al mese. Una bella sommetta, che avrebbe validamente sostenuto i miei normali sforzi di sbarco del lunario in attività varie, non tutte artistiche, che sottraggono necessariamente parte del mio tempo a queste.

Sognare è gratis, abbondiamo.

E se fossi stato abbastanza bravo da convincerli tutti? In fondo stando al dato di realtà, con questa media, si tratterebbe di circa cinquanta centesimi al mese per ogni lettore (fatevi il conto). Non è impossibile, anzi: secondo me ci stai già facendo un pensierino anche tu. Intanto continuo con la mia sognata alla grande… Dunque, se tutte le tremilasettecento persone avessero mantenuto questa media, io avrei tirato su la bellezza di ventiquattromila euro (24.167,00€) in un anno: duemila euro al mese. Così: autonomamente, senza patrocini, vassallaggi, assessorati politici in conflitto aperto coi congiuntivi, senza fondi pubblici crestati come vette alpine da spendere in …qualcosa tanto per dimostrare che si è fatto qualcosa, che poi passata la festa gabbato lu santo.

Un anno da leone.

Se tutti gli avventori di questo locale virtuale facessero come i miei quattro idolatrati lettori, e lasciassero la bellezza di cinquanta centesimi al mese nel porcellino, io camperei benone, del mio lavoro, onestamente, liberamente, col frutto del mio ingegno (il che, per quanto malvisto in Italia, non mi pare sia ancora reato). Ok, magari solo per un anno, …ma che anno! E per il prossimo vorrà dire che mi sbatterò ad inventarmi qualcos’altro. In fondo, questo è il mio lavoro.

Il grido di battaglia.

Tutto ciò rinsalda la mia ultima certezza ideologica residua, riassumibile nel grido di battaglia: “è la somma che fa il totale” (cit.: Totò). La somma degli atti degli individui fa il totale dell’umanità in una data area geografica. Sono i singoli individui che decidono che mondo debba essere questo. Nessun altro al loro posto. Partiamo da un esempio alto ed illustre come si conviene ai discorsi sui blog. Partiamo dal cesso. “Lascia questo posto come vorresti trovarlo”.

Falla fuori.

L’ho letto più di una volta ed è saggio. Molti pensano che la piega del mondo dipenda dai marziani, da Paperon De Paperoni, dalla Banda Bassotti… riuscendo così a deresponsabilizzare ogni propria scelta. Così non scelgono, o peggio: scelgono il peggio. La fanno di fuori. Non si danno pena di centrare il buco, anzi annaffiano la ciambella e gli angoli del piastrellato con un misto di risentimento e di rassegnata disperazione, quando potrebbero semplicemente non farlo. Il cesso di mondo dipende proprio da loro. Come tutta la letteratura dipende da chi ha in mano il testo in quel momento. Non se ne accorgono, non vogliono crederlo, non si rendono conto di quanto dipenda da loro, da un singolo, dalla scelta di un istante e dalla responsabilità di ciascuno. Di come tutto sia reciproco: il mondo che incontri è il mondo che crei. Non se ne rendono conto. Quindi non cambiano un gesto, non prendono la mira, non muovono un dito, nell’attesa che sia qualcun altro a farlo. Ti diranno che uno non serve a niente, uno è troppo poco. Non credo. Ad esempio non rinuncerei ad uno solo dei miei quattro impavidi lettori che centrano il buco. Per me ognuno di loro è il mondo intero.

…Perché?

Per un banalissimo ed elementare motivo: una è la vita. One shot. Uno è l’istante trascorso nel tempo in cui l’hai detto, tramontato in eterno. Ognuno di noi sceglie, agisce e scompare. Un attimo. Poi tocca all’altro. Che mossa farà? Sta a lui. Il mondo in ogni preciso momento è la somma algebrica di questo processo numericamente complesso, che per il singolo si riduce e semplifica nel risultato netto di: uno.

Tutti per uno, uno per tutti.

I miei quattro moschettieri hanno deciso che questo può essere un mondo in cui un tale può agire la cultura al di fuori delle accademie e delle logiche da quattro soldi del potere in questo ridente paese e che, se lo fa bene, con disciplina, a regola d’arte, o se torna utile o semplicemente ti distrae per un’oretta o due, quel tale (che potrei essere io) è degno di ricevere da me (che potresti essere tu) un riconoscimento economico anche solo simbolico, a totale discrezione del prossimo. Ed è bellissimo.

La somma che fa il totale.

Somma tremilasettecento riconoscimenti simbolici in un anno e hai cambiato la vita di chi si è messo in gioco rivolgendosi direttamente a te, individuo dall’altra parte dello schermo, scavalcando inchini, vassallaggi, lottizzazioni, vecchiumi, immobilismi, pregiudizi, cialtronaggini e tutto il ciarpame di cui si ricopre la cultura italiana da secoli.

Bene, per farla breve. Io avevo qualche idea e una serie di mezzi. Li ho usati. Questo è quanto. Quei quattro lettori hanno deciso di cambiare il mondo e, per quanto mi riguarda, lo hanno fatto. Commosso li ringrazio. Io continuerò a farlo in un modo o nell’altro per tutto il resto del mio tempo. Anche tu puoi farlo, in qualsiasi momento.

Grazie.

VERSI VACANTI

Ricordi  LA PREDA? “La preda che si raggira / nel vacuo…”. Eccola qui r-aggirarsi ancora, nell’arco di questi brevi versi che se non risalissero alla metà degli anni Ottanta sembrerebbero scritti per Twitter.

Sarà quella stessa preda (la Bestia) che qui raggira ancora sé stessa nel vacuo; nel vuoto di questi versi vacanti (mancanti). Versi che stanno fuori dal LIBRETTO e da LA MUSICA e si incontrano solo qui, quasi in prossimità dell’uscita, nella sezione ALTRE CADENZE.

Versi che non sapevano bene dove andare (vacanti come vaganti?). Versi che hanno tutti qualcosa a che fare con l’andare.

Un paio di note lessicali prima di proseguire.

…Si aggira? …Raggira? …Si raggira!

Caproni scelse magistralmente l’espressione “si raggira nel vacuo” al posto di un generico “si aggira…” conferendo all’azione una specularità straordinaria di significato, attraverso la semplicità estrema di una consonante: la preda non si aggira… E non r-aggira solo chi la sfida: essa è imprendibile a sé medesima, inganna la propria forma per prima; la preda (la Parola, come vedemmo allora) è fatta di nebbia. Si r-aggira. Ma qui la Parola sembra scomparsa (vacante) e si direbbe quasi che si stia parlando d’altro… Alla fine del viaggio. Che la Bestia sia la Vita? Che sia già quasi finita?

In piena disperanza.

Disperazione, no. Speranza nemmeno. Di-speranza: neologismo caproniano tra i più felici, orecchiabili e profondi. La disperanza che rende allegro il “povero negro”, in una cadenza che qui assume i colori del blues.

RAGGIUNGIMENTO.

…Dove vai Giorgio?!
…Non lo vedi che l’erba finisce lì?

PAESAGGIO.

LA VIPERA: LA VITA. Si guardano, si identificano quasi, si equivalgono, si annullano. Come tutto ciò che in Caproni è doppio. Il doppio in Caproni non si somma mai: si elide, casomai.

ALL LOST.

Qui la voce “disperanza”. Un blues di una sola stanza.
Mi ricorda una canzone di un amico… Pavese Cesare o Bezzato Gianrico.

VISTA.

Si naviga, a vista. Verso dove. Verso il confine. Oltre  il confine? Il confine del verso? L’ultimo dei luoghi non giurisdizionali caproniani, sta per arrivare davvero, adesso. Qui Caproni dice: “guardo davanti a me”. Incipit immortale. Talmente assoluto che pare banale.

Chi sgama un Leopardi ci vede giusto.

Quando in versi qualcuno dice di guardarsi davanti, l’occhio vede immediatamente di dietro e nella tradizione italica spunta immancabilmente Leopardi, la siepe e l’infinito assaporato per contrasto. E guarda caso: …anche in quel frangente ricorreva il termine vago. Ma ai tempi di Leopardi il vago non risuonava di vacuo, solo di indefinito: il vago non era ancora del tutto vuoto.

Cosa vedi Giorgio?

Ecco dunque a noi uno sguardo contemporaneo sul nulla davanti: un albero comune e solitario. Un fiume indefinito che scorre (all’infinito), si presume verso un suo estuario. Un cartello, primo segnale umano, chiaro, comunicativo: una scritta! …e infatti è nebuloso (nella sua pretesa di chiarezza informativa), dal tono prosaico. Pubblicitario? Un messaggio talmente inutile che rasenta il beffardo.

La parola serve. Praticamente a niente.

Che vuol dire? Solo il confine, è detto, per adesso. Non che di più sia mai dato sapere. Lo sapevamo già. Staremo a vedere. Di certo qui, a parte il verso, non ci si finge più niente; e neanche naufragare sembra dolceE si ricorda il suono, l’eco di un ultimo sparo, come di ritorno da quella caccia ormai lontana che ora risuona un po’ goffo: …solo un ultimo, quasi patetico, tiro di schioppo.

VALE PECUNIA

Questo è il mio lavoro, è da anni a tua disposizione, lo rimarrà, ne verrà dell’altro. Se ti va di farne parte e finanziarlo, anche solo per una minima parte, puoi liberamente farlo o rifarlo. Ogni singolo contributo è significativo, anche il prezzo di un libro o di un caffè: è amichevole, tiene svegli.  Ti ringrazio.  (Giovanni Succi)

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GALANTERIE

A RINA

Nella storia di Giorgio Caproni c’è una donna di nome Rina. Sua sposa.
Nella storia di Giorgio Caproni c’è un amore di nome rima. Sua rosa.
Senza di loro niente sarebbe quello che è. Quello che è, sarebbe niente.
Rime ricche, si dicono in gergo tecnico: Rina/rima; come albero/albero.

INTERROGATIVO

Le cime più alte del pianto menano a qualche cosa?

CITAZIONE

Come anche piangere a lungo in solitudine?

I BACI

Le capitali rase (risentite nel secondo dei Tre improvvisi sul tema la mano e il volto) qui nelle Galanterie tornano a dispensare baci da cartoline.

DUE MADRIGALETTI
I – Appassionatamente.
II- Sempre con cuore.

In Galanterie la musica è musica leggera virata in ironia. Il rapporto tra nome e corpo risolto in canzonetta. Ma dentro c’è tutto. Compresa la fine, il trapasso. E l’ignoranza innocente di un sasso.

MARTINA

(alla Signora Bianca d’Amore). Se qualcuno sa cosa sia il marratano, lo dica.

LAUDETTA (a Rina)

Le Galanterie si aprono su Rina e si chiudono su Rina.
Rina la donna, la sposa, la madre, l’amica, la base, la vita.
La sola giusta parola: la rima.

In Res Amissa (la raccolta postuma) troveremo ennesime dichiarazioni d’amore come questa, PER L’ONOMASTICO DI RINA RIBATTEZZATA ROSA:

[…] Mia rosa sempre in cima
ai miei pensieri…
Mia rima
sempre in me battente…
Fonda e dolce…
Quasi
– in me – flautoclarinescente.

Ed era sempre e ancora musica.

ALTRE CADENZE

Un mese di silenzio. Il giusto tempo, dopo un anno intenso. Presto daremo voce al resto del libro, che prosegue con ALTRE CADENZE e all’interno di queste, altre sezioni diverse, alcune delle quali perfettamente in cornice rispetto allo scenario dell’operetta a brani. Freddato il direttore, il concerto è andato come è andato. La partitura ci ha assistiti? Noi abbiamo assistito a lei. Ora usciamo. Dopo IL LIBRETTO e LA MUSICA si è richiuso il sipario ed è il chiacchiericcio del pubblico, attardandosi nel ridotto del teatro, ad arredare il silenzio di battute più leggere, alcune facili ironie e, com’è normale in questi casi, di Galanterie.

62 – SMORZANDO

Così va il mondo. Tre giorno dopo, una pagina dopo… tutto è lontano. Il suono del mondo è smorzato. La MUSICA del libretto dissolve in uscita. L’operetta è finita. L’ultimo brano sfuma. Le ultime scintille alzate dal vento la notte, sulle creste montuose remote, le abbiamo intraviste. Qui finisce.

SMORZANDO è un modo musicale. L’orchestra suona ma scende di dinamica, in punta di piedi. Si allontana da sola dalla scena sonora. Resta fermo chi ascolta. Lei se ne va.

Allude a tutto un restante trambusto sonoro (rumore) che riguarda già altri: …altro da fare, da dire, inseguire…

Lontano si spara, si lotta, si ama… Si intuiscono altre generiche scene di caccia. Si intuiscono come? Al soffio del vento del tempo; il tempo soffia, ha un suo vento. Vento del tempo tra le foglie sonore (come nell’Infinito leopardiano).

Vento e tempo che porta.

Vento e tempo che soffia.

Vento e tempo che passa.

(…E quasi orma non lascia.)

Silenzio.

61 – CATENE

7 gennaio 2012 – 7 gennaio 2013

Era mia intenzione racchiudere l’esecuzione del poema tra queste due date. L’alfa e l’omega del centenario della nascita di Giorgio Caproni.

Dissolvenza.

CATENE è il lais de Il Conte di Kevenhüller. Il lascito, il testamento. Senza colpi di scena, come in un ciclo normale, arriva alla fine. Non esattamente alla fine del libro, che proseguirà con altri testi sistemati da Caproni fuori cornice. Altri testi dei quali – lo annuncio – non mancheremo di occuparci e dare lettura fino alla conclusione dell’opera intera, in un arco di tempo indefinito, suppongo entro l’anno in corso. Ma per ammissione dello stesso Caproni, riferita in confidenza a Luigi Surdich e da quest’ultimo riportata di recente al sottoscritto (a riconferma dell’evidenza), il LIBRETTO e LA MUSICA sono la cosa. Il poema. Il resto, lungi dall’essere mancia, segue come contorno o appendice.

CATENE è uno dei testi che più lasciano il segno eppure, paradossalmente, è fatto di nebbie. Gioca sulla dissolvenza dei fulcri tematici fin qui adoperati, sulla dissolvenza stessa del verso. Eppure sul termine VERSO si batte e ribatte, tre volte, in tre movimenti precisi.

Il primo. Siamo passati dal sentimento della sera (Abendempfindung è il titolo di questa sezione) alla quasi notte, ormai imminente ma non ancora piena. Ultimi movimenti della musica. Poi: dissolvenza e fine.

Ma prima, ancora un istante al di qua di quella fine (da dove è possibile ancora raccontare l’esperienza, non dopo) ecco il resoconto dettagliato di quello che resta.

Abbiamo fatto fuori la Bestia che ha fatto fuori noi; abbiamo fatto fuori tutti quegli “io”, quei nomi. Ora faremo fuori anche quel che resta: faremo fuori i suoni.

Verso la notte. / Quando / […]

“Il vento alza ancora scintille / sulle creste” delle cime più alte delle montagne: lo sguardo punta quelle rocce e a quelle baluginanti scaturigini del fuoco. Inarrivabili, ma visibili, ancora. Altri segnali d’alta quota arrivano ora.

Verso / la pietra dura, dove / risuona il passo […]

Il sonoro non manca mai in Caproni: ecco i nostri passi sulla pietra dura, dove tutta l’erba a cui si alludeva, ricorrente nei viottoli e campi nell’arco di tutto il poema, ha lasciato posto al lichene.

[…] e cresce / solo il lichene.

La vastità e la varietà del prato si è fatta muschio che cresce e resiste (“solo”: solamente o solitario?) sulle ultime pietre.

Altro VERSO e la visione si abbassa di colpo: a strapiombo dall’alto, guardiamo il letto del fiume: il fiume è l’acciaio. Lo stesso acciaio di lame fredde che aprivano il LIBRETTO ed erano uno dei motivi ricorrenti.

Verso / l’acciaio del fiume.

Quello che ci tiene legati è fatto della stessa materia di quello che ci separa. L’acciaio delle catene; l’acciaio della lama.

Acciaio / che sa di catene…

Una lunga sospensione. Poi – dal silenzio bianco del foglio – il fulcro caldo del componimento: le braci vive del sangue! E per quanto tenaci e infiammabili siano le braci, non sono certo più fiamme. Ma scaldano ancora (termine chiave) e bruciano vive.

Di tutte le braci vive / del sangue, […]

Il fulcro caldo del testo si è fatto di ghiaccio, è già gelido nel giro dello stesso verso, in forma speculare. Specularità che come sempre in Caproni non si somma in doppio ma si elide in un vuoto.

[…] poche bacche / rosse nel gelo.

Da ultime gocce di sangue a bacche nel gelo. Quanta concretezza di immagini in versi così glaciali e radi. Quelle scintille lontane sulle creste continuano. Amori, ardori e slanci, imprese, frane, avventure e cacce… Alzate dal vento del tempo. Poi, qui, questo:

Poche / smarrite ortiche.

Quelle stesse erbacce pungenti che trovammo (in sinestesia magistrale) nell’udito dei morti (23 – OSPETTO). Il silenzio si fa più vicino.

Resta altro?
Altre riminiscenze del corpo?
Cos’altro. Oltre il silenzio.

(“…E un ricordo / – troppo vago – di vene.)

Ipotesi vaga, tra parentesi; …sommessamente.

Ipotesi che neanche si sente.

60 – IL NOME

Eccolo, preso di petto: come davanti allo specchio. Il nome. Che cosa resta, prima o dopo il nome (è lo stesso) di noi? Nei nostri ricordi di individui singoli e irripetibili restano migliaia e migliaia di frammenti vaghi; centinaia di ore nitide; qualche decina di giorni netti, i nostri più memorabili eventi. Il prato apparentemente sempre verde del presente, a tratti affollato di gente.

Nel ricordo dei conoscenti saremo una nube vaga di gesti e di voce, di sguardi, movenze; magari di cose dette al volo in un bar, chissà quando. Dove.

Nel ricordo dei figli saremo una costellazione di atti con una voce da sentire mai più e forse decine di episodi, di segno diverso, vissuti in condivisione, irradianti sentimenti pungenti. Uno sciame di gesti precisi e dettagli del corpo, insignificanti per chiunque al mondo non sia nostro figlio.

Se mai avremo nipoti, saremo racconti sbiaditi per lo più di seconda mano, narrazioni di altri; racchiusi in una manciata di dettagli che restano netti giusto il giro di una vita. Mio nonno ha fatto due guerre, mi raccontava le fiabe ma io volevo sapere delle battaglie. Mi preparava il latte al mattino e aspettava con me il pulmino giallo della scuola sulla strada polverosa. Aveva occhi azzurri d’acqua e nessun dente in bocca. Poi è sparito in un letto d’ospedale. Rannicchiato come una larva.

Larva. Qualcosa che nasce e dà vita. Ma etimologicamente anche il fantasma (nella sua accezione latina).

Oggi io porto il suo nome (Giovanni Succi) e la sua larva, sono l’ultimo depositario del suo fantasma. DI quella persona che al mondo per me fu mio nonno. Padre di mio padre. Di tutto quel che lui fu, oggi resta questo. Un nome. Una icona. Che sono io, per ora. Ancora per poco. Una mezza vita.

Farò come lui la stessa fine. Ammesso che io abbia mai nipoti.
Di noi (eroi e figuranti: tutti a prescindere dai ruoli, noti o ignoti nella storia) questo resta. Un nome. Una icona. Che alla fine divora tutto quel che siamo stati in vita. Siamo stati la persona? (Qui l’etimologia suggerisce un personaggio, un’altra maschera). L’icona ci inchioda a pochi dati. Con maestria infinita Giorgio Caproni questa icona, a sua volta, la inchioda (le si ritorce contro, ci prova) così: FAMELICA.

Come la bestia.

59 – ABENDEMPFINDUNG

W. A. Mozart, K 523 (1787) Lied “Abendempfindung” (“Sentimento della sera” riportato anche con dedica “an Laura”), su testo di Joachim Heinrich Campe, in Fa maggiore. Nell’interpretazione di Elisabeth Grümmer (1911-1986), grande soprano.
Un canto lieto, amaramente ironico per un finale prossimo.

Lieto fine.

Il componimento che Caproni intitola Abendempfindung dà il nome a tutta la sezione finale della raccolta; sezione che, dopo Versi controversi, comprende tutti i brano da Di un luogo preciso descritto per enumerazione in poi. Dunque è cruciale. Va a chiudere. Vediamo come.

Non c’è sembianza – è detto – / che affermi la sostanza.

Il testo di Abendempfindung si apre con una affermazione secca e asciutta in puro stile caproniano: uno di quei versi che sulla carta di ‘poetico’, nel senso comunemente inteso, non ha proprio niente. Una affermazione fredda, precisa e metallica. Come una chiave. Una chiave di volta. Una chiave di lettura. Infatti eccola qui, in apertura. La chiave di una serratura (indizi chiari in 37 e 38). La serratura, questa volta, di un vecchio portone in legno massiccio e pesante, cigolante, che tra poco ci chiuderemo alle spalle.

Una chiave apre.

In un verso riassume tutta l’opera. Non solo Il Conte di K.; tutta la propria Opera in versi: il suo lascito. Quello del più grande poeta del Novecento italiano che, ancora una volta in controtendenza con qualsiasi corrente del secolo suo, diffida e dispera del potere della parola. Dando solo per certo questo: fallisce.

Più chiaro di così?

Potessero imprimersi questo concetto bene in fronte quanti (troppi) insistono, per pigrizia mentale a catalogare la poesia di Giorgio Caproni come ermetica. Come se fosse un sostantivo generico che significasse qualcosa, a parte la loro ignoranza. Quando l’ermetismo come corrente novecentesca attribuisce alla parola in sé capacità quasi divinatorie. Mentre Caproni dice a chiare lettere: la parola (in quanto sembianza) fallisce continuamente la propria missione, non porta a nessun significato fermo o dato di realtà, a nessuna cosa, perché non ne afferra la sostanza. Eppure resta l’unico strumento, l’unica fallibilissima arma. Questa è la condanna. Questo incide lapidariamente nei propri versi (non in remoti saggi critici a margine), ripetutamente, Giorgio Caproni.

Detto questo, che dire?

Lo sguardo spazia e la lingua prova a dire. Dove? Sull’acqua: si riparte dal pelo dell’acqua; dove un rondone, con il suono del suo grido, lima la sfera del globo.

Il suono scolpisce gli elementi, a cominciare dall’acqua, elemento che è in grado di rendere anche visivamente l’idea dell’onda (sonora). Immagine semplice e sublime: l’acqua sferica (qui detta col dantesco e latineggiante spera) limata dal suono (la lima è metallo) stridulo di un uccello in volo. Acqua sferica, sineddoche del pianeta. Nota bene: tutto questo impiegando due settenari (versi di sette sillabe) e il nome di un volatile. Caproni maestro assoluto del minimo per il massimo, del poco per il tutto.

Due alianti altissimi.

Seguendo il rondone lo sguardo trova nel cielo anche qualcosa di umano: di semplicemnte e teneramente umano. Due alianti: il volo senza rumore dell’uomo. Fragile e silenzioso. Eppure un volo. Gli alianti sono due. Uno sarebbe stato troppo ‘eroico’ o troppo solo.

Lo sguardo ridiscende.

Incontra le montagne: più precisamente la cima. Una sola, nera e spigolosa, stagliata netta nel cielo della sera. Una come la vita. Una come il pianeta che si finge una stella (Venere), il pianeta della dea che si specchia in sé stessa, Venere la doppia che si elide: stella del mattino e stella della sera. Insieme inizio e fine.

Il portone si chiude.

Con cautela. Il sentimento della sera però non se ne resta dalla parte opposta della nostra barriera. L’androne risuona, umido vuoto e scuro. Il mondo è fuori. La notte è dentro. Il sentimento della sera in Caproni è il senso nettamente percepito della fine. Un sentimento freddo, composto ma di un umido senza scampo.

La mia preghiera.

Perdutamente e senza revoca alla divinità meno certa. L’unica che resta. Buon ascolto.

58 – TRE IMPROVVISI SUL TEMA LA MANO E IL VOLTO

Premessa, verso la fine.

I TRE IMPROVVISI sono un preludio alla fine. Del poema. Ragionevolmente anche di chi lo scrive. Giorgio Caproni nel 1986 è un uomo di circa 74 anni, eppure è al culmine della propria lucidità compositiva. Un distillatore straordinario che ha ancora qualcosa da aggiungere, di ulteriormente complesso dal punto di vista poetico e filosofico, al proprio percorso di autore. Non esiste altro versificatore italiano del Novecento di cui si possa affermare altrettanto. Mi si corregga se sbaglio.

L’ultima opera composta in vita, Il Conte di Kevenhüllernon è una variatio ossessiva di temi già emersi (tesi di alcuni critici), ma il punto più alto, la summa e il superamento di mezzo secolo di Opera caproniana. I temi e gli elementi di una vita di versi tornano, è vero; ma tornano variati, ridistillati in purezza, magistralmente rimodulati, implementati e drammaticamente (o ironicamente) rivolti ad un fine diverso e ulteriore: un passo nell’oltre, proprio là dove il dove non esiste. Nessuna epifania estatica. Nessun oltre-mondo si palesa minimamente mai. Solo un oltre-tempo, un oltre-istante. Perché quell’istante c’è, esiste e attende: la nostra uscita dalla Storia (cieca, sorda e inutile, mai capitalizzabile) esiste già. Quell’inesistente mare per il quale ci si appresta tutti da sempre a salpare. Un oltre caproniano, nero, zitto, assente, vuoto, senza Madonne o Beatrici ad attendere l’uomo, senza stelle a orientare il cammino: …il cammino non c’è. La meta è perdersi.

Dunque con questa raccolta Caproni tentava l’intentato: forzare le proprie stesse sentinelle e guardiani e guide e buttarsi a capofitto nei suoi stessi e famigerati luoghi non giurisdizionali. Nei campi, per i quali si era detto fosse inutile andare avanti. Questa è la sfida tematica e linguistica (ardua, da Dante in Paradiso) che in quest’opera il suo verso prova a dire.

I commenti che seguono a questi passi non sono affatto esaustivi e per di più son scritti di getto; ho ricercato la sintesi ma non sempre ci riesco. Vedo tutti i miei limiti. Pace. Prima della fine del mondo ci sarà pure un occhio disposto ad arrivare alla fine del foglio. Se c’è, bene, ho scritto per lui. Se no è lo stesso: felicemente la mia fatica non ha senso; spero però sempre di meritare la preziosa fatica altrui.

Buona lettura e buon ascolto.

L’erba si è fatta magra

Nell’incipit del primo di questi tre “improvvisi” (figura musicale in Shubert, Chopin…), risuona uno dei più famosi componimenti caproniani: L’ultimo borgo, del 1976, ne Il franco cacciatore. Circa un decennio prima, quel componimento si chiudeva così:

“[…] L’ora / era tra l’ultima rondine / e la prima nottola. // Un’ora / già umida d’erba e quasi / (se ne udiva la frana giù nel vallone) d’acqua / diroccata e lontana.”

Dissolvenza al nero e rumore.

Nel ’76 finiva così: l’immagine usciva dall’osteria e si sprofondava nel buio lontano di un altro di quei tanti torrenti a fondovalle, che fanno da sempre lo stesso rumore; quel rumore eterno ed immutato dell’acqua sui sassi che fa sovente da bordone a molti versi caproniani.

Il sonoro in Caproni.

Una delle tante “sole risposte” ai dubbi umani, alle apprensioni, alle paure: rumori vicini o lontani come il cigolio di certe porte, il rimbombo nella notte degli androni, il fischio dei freni, ingranaggi di ascensori, scatti di serrature, cani, spari, gabbiani, merli, nottole…

Rumore franante d’acqua.

“[…] L’ora / era tra l’ultima rondine / e la prima nottola.” L’indicazione dell’ora. Questo dato faceva da chiusura, maestosamente sorda e sospensiva, a suggello di una estenuante giornata di caccia. Caccia a chi o a che cosa, non era dato saperlo allora; mentre nel Conte di K. la caccia ha un oggetto/soggetto nella bestia, certo. Ma a questo punto del testo ormai è quasi notte e tutta la vicenda è quasi del tutto spenta, evaporata in nebbia. Di bestia neanche più si parla.

Oltre non si andava.

Quella caccia di allora (ne L’ultimo borgo del ’76) sapeva di reminiscenze di un vissuto bellico, sapeva di rastrellamento. Lasciava immaginare un giallo, una storia di spie, una guerra civile… Una vicenda fiaccante in cui, di ricercati e segugi senza volto, non sappiamo niente, che finisce in niente: …le loro stanchezze, le loro teste vuote, all’osteria di un ultimo borgo. Fuori solo rumore buio. Poi la fine del testo. Poco più in là c’è la fine del mondo. La fine della giurisdizione. Nessun altro dove. Rumore cieco di acqua scoscesa e franante in un vallone. Oltre non si va. Oltre non si andava. Sarà il caso di rileggerla tutta la cronistoria di quella giornata.

(Lettore, se non ne hai voglia adesso, salta al passo successivo e vedi il capitoletto Oggi, che ora è. Ma, lo sconsiglio. Prenditi il tuo tempo. Quando puoi).

L’ultimo borgo (1976)

“S’erano fermati a un tavolo / d’osteria. // La strada / era stata lunga. // I sassi. / Le crepe dell’asfalto. // I Ponti / più d’una volta rotti / o barcollanti. // Avevano le ossa a pezzi. // E zitti / dalla partenza, cenavano/ a fronte bassa, ciascuno / avvolto nella nube vuota / dei suoi pensieri. // Che dire. // Avevano frugato fratte e sterpeti. / Avevano / fermato gente – chiesto / agli abitanti. //”

Pausa. Il tempo di notare come l’azione cominci dalla sosta, (“S’erano fermati…”) e poi riporti alla strada percorsa. Il tempo di notare le scelte terminologiche mai enfatiche: il neutro “rotti” dove un altro avrebbe forse detto drammaticamente distrutti. Rompere i ponti (col passato, con qualcuno) è anche modo di dire corrente: quello che Caproni sceglie.

“Ovunque / solo tracce elusive / e vaghi indizi – ragguagli / reticenti o comunque / inattendibili. //”

Altra risonanza nettissima tra Il franco cacciatore Il conte di K.: ricorda la chiusura di INVANO, all’inizio della nostra caccia, che diceva: “[…] // Dovunque, / col cuore che mi scoppiava, / non scorsi la più piccola traccia.”
Riprendiamo:

Ora / sapevano che quello era / l’ultimo borgo. / Un tratto / ancora, poi la frontiera / e l’altra terra: i luoghi / non giurisdizionali. // “

(Grassetto mio). Poi la chiusura già letta:

“L’ora / era tra l’ultima rondine / e la prima nottola. // Un’ora / già umida  d’erba e quasi / (se ne udiva la frana giù nel vallone) d’acqua / diroccata e lontana.”

Oggi, che ora è.

Bene, un decennio dopo circa, l’ora s’è fatta ancora più tarda. E ancora più certa. Il Giorgio che scrive oggi ha superato la settantina. Dice semplicemente: “è l’ora mia”. Incipit straordinariamente vero e capitale, come una sentenza o una pena.
E sia.

Erba spontanea ovunque.

Infatti tornano tutti i suoi elementi più cari, quelli che tornano in tutta l’Opera dell’autore come strumenti o chiavi di note o accordi ricorrenti, Spontaneamente. Come spunta sempre l’erba nei campi.

Afterhours.

L’ora romantica della malinconia” al nono verso del testo odierno suona quasi non troppo ironico. Anche il titolo dei TRE IMPROVVISI, del resto, ce lo lascia supporre, essendo prettamente romantici gli improvvisi in musica. Ma quel che conta è altro: la forza di andare verso quel confine e superarlo. La forza di passare (oltre-passare) quell’ora.

Si passa il confine.

La voce dell’autore muove un passo oltre lo stop, la stazione di discesa o di posta, la frontiera, che si era sempre dato. I tanti campi e i tanti valloni che interdicevano il passaggio. Che sia questo il vero senso e la forza di tutta l’ultima opera composta in vita?

Che il Conte di K. trovi nell’inseguimento della Bestia una scusa buona per perdersi, per spingersi ancora più avanti e sfondare il confine e smarrirsi in quei campi, in quell’inesistente “dove” verso il quale l’autore non si era così apertamente e lucidamente spinto mai?

Nessuna guida o sentinella nega il passo.

La tensione all’indicibile è fortissima eppure – rigorosamente – nessuna traccia di trascendenze. Le mani ficcate nella materia del nulla come ultimo orizzonte d’attesa reale. Beata fatica in versi di un uometto rinsecchito nei suoi ultimi quattro anni di vita. Non aveva ancora scritto tutto nei circa cinquanta anni prima.

Superarsi sul proprio stesso terreno.

Oggi, verso sera, verso la fine della caccia, verso la fine del libro, verso la fine del concerto, quell’ultimo borgo, avamposto di dieci anni prima, è superato. La musica (riascoltiamola) è incredibilmente rarefatta e inafferrabile.

Caproni trova ancora forza e voce per superare sé stesso, sul proprio stesso terreno. Senza variare elementi, i suoi strumenti, il suo lessico ricorrente. L’ipotesi è che con il finale de Il Conte di K. siamo nel bel mezzo dei famigerati luoghi non giurisdizionali (formula-frase-fatta della critica letteraria caproniana); siamo nell’altra terra. Abbiamo varcato il confine; siamo dove la poesia de Il franco Cacciatore (e di tutto il Caproni precedente) si fermava. (Forse ad alcuni critici sfugge). Siamo nell’oltre.

Il gesto che annulla il mondo.

Varcato il confine ci muoviamo completamente fuori giurisdizione: dove la mente non può, non coglie, non serba. Sarà per questo motivo che il luogo (il dove), non esiste (come annunciato a chiare lettere in VERSI CONTROVERSI).

Esistono solo la mano e il volto. Coincidenza quasi beffarda con una anatomia iper-letteraria da canzoniere petrarchesco, ma qui non è questo: …piuttosto il gesto pietoso di chi chiude gli occhi al cadavere. Il gesto della mano che passa sul volto (il proprio?). Il gesto semplice, che per primo (nell’infante) e per ultimo, annulla il mondo.

“[…] una mano passa / sul volto, e annulla / città e campagne – il mare / lontano: le sue montagne.”

Il volto è il luogo.

Nel secondo dei tre improvvisi è il volto stesso ad esser diventato il luogo. Un luogo fatto volto (o un volto fatto luogo) dove la mano che passa risente (sente ancora) trame di paesaggi, di vita, di morte e di guerre (“le capitali rase”). Trame di lettere maiuscole (incipit di capitoli, capitali) e di singole esistenze.

L’acqua perde il rumore.

Si ritorni alla sezione PONTE NERO de Il franco Cacciatore. Si ritroverà anche la nottola: ma se là “[…] / (non c’era altra voce) […]“, oggi resta invece soltanto una voce che increspa il nulla come piccole onde (sonore) sull’acqua; ed è tutto ciò che resta.

L’erba è definitivamente nera (“strema l’ultimo verde”). L’arma è bianca e viene a trafiggere noi. L’acqua (per la prima volta nei suoi versi) è muta. Solo appena “…una voce che chiama” ne increspa la superficie silenziosa (…come faceva la libellula ne L’idrometra – all’inizio de Il muro della terra?). Una voce che chiama. Che cosa, o meglio, chi? Chiama il nostro nome? Sembra vicina. Che sia l’ora, della nostra esecuzione?

Esecuzione per sola voce.

Questo resta alla nostra ultima ora: una voce e il nulla. L’ora freddamente falcidia. Ad arma bianca. Dunque l‘acciaio del FONDALE nel teatrino dell’inizio, era già l’acciaio della lama che ci trapassa (il fondale della Storia). La lama (LA LAMINA?) che ci tra-passa è l’ora. In questo transito, trapassati (come trafitti, ma anche come già-passati, quindi “mai stati” – “[…] che per esser nati / non sono mai stati”), noi trapassiamo.

Opposti ugualmente in atto nel contempo, dentro lo stesso verbo, come la bestia (che “uccide uccisa”). Al presente (tempo verbale quasi onnipresente). Siamo essere e non essere insieme. Anche se non esisteva / la bestia c’era”.

Il tempo annulla e si sente solo una voce. Solo questa è la storia, alla fine. Detta con le stesse parole di sempre; quanto mai inaudite.
Con tutto quello che, sempre, resterebbe da dire.

Dissolvenza al bianco, quasi silenzio, quasi fine.

Quasi.

Entro il 7 gennaio 2013, gli ultimi quattro passi.

Esausti?