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61 – CATENE

7 gennaio 2012 – 7 gennaio 2013

Era mia intenzione racchiudere l’esecuzione del poema tra queste due date. L’alfa e l’omega del centenario della nascita di Giorgio Caproni.

Dissolvenza.

CATENE è il lais de Il Conte di Kevenhüller. Il lascito, il testamento. Senza colpi di scena, come in un ciclo normale, arriva alla fine. Non esattamente alla fine del libro, che proseguirà con altri testi sistemati da Caproni fuori cornice. Altri testi dei quali – lo annuncio – non mancheremo di occuparci e dare lettura fino alla conclusione dell’opera intera, in un arco di tempo indefinito, suppongo entro l’anno in corso. Ma per ammissione dello stesso Caproni, riferita in confidenza a Luigi Surdich e da quest’ultimo riportata di recente al sottoscritto (a riconferma dell’evidenza), il LIBRETTO e LA MUSICA sono la cosa. Il poema. Il resto, lungi dall’essere mancia, segue come contorno o appendice.

CATENE è uno dei testi che più lasciano il segno eppure, paradossalmente, è fatto di nebbie. Gioca sulla dissolvenza dei fulcri tematici fin qui adoperati, sulla dissolvenza stessa del verso. Eppure sul termine VERSO si batte e ribatte, tre volte, in tre movimenti precisi.

Il primo. Siamo passati dal sentimento della sera (Abendempfindung è il titolo di questa sezione) alla quasi notte, ormai imminente ma non ancora piena. Ultimi movimenti della musica. Poi: dissolvenza e fine.

Ma prima, ancora un istante al di qua di quella fine (da dove è possibile ancora raccontare l’esperienza, non dopo) ecco il resoconto dettagliato di quello che resta.

Abbiamo fatto fuori la Bestia che ha fatto fuori noi; abbiamo fatto fuori tutti quegli “io”, quei nomi. Ora faremo fuori anche quel che resta: faremo fuori i suoni.

Verso la notte. / Quando / […]

“Il vento alza ancora scintille / sulle creste” delle cime più alte delle montagne: lo sguardo punta quelle rocce e a quelle baluginanti scaturigini del fuoco. Inarrivabili, ma visibili, ancora. Altri segnali d’alta quota arrivano ora.

Verso / la pietra dura, dove / risuona il passo […]

Il sonoro non manca mai in Caproni: ecco i nostri passi sulla pietra dura, dove tutta l’erba a cui si alludeva, ricorrente nei viottoli e campi nell’arco di tutto il poema, ha lasciato posto al lichene.

[…] e cresce / solo il lichene.

La vastità e la varietà del prato si è fatta muschio che cresce e resiste (“solo”: solamente o solitario?) sulle ultime pietre.

Altro VERSO e la visione si abbassa di colpo: a strapiombo dall’alto, guardiamo il letto del fiume: il fiume è l’acciaio. Lo stesso acciaio di lame fredde che aprivano il LIBRETTO ed erano uno dei motivi ricorrenti.

Verso / l’acciaio del fiume.

Quello che ci tiene legati è fatto della stessa materia di quello che ci separa. L’acciaio delle catene; l’acciaio della lama.

Acciaio / che sa di catene…

Una lunga sospensione. Poi – dal silenzio bianco del foglio – il fulcro caldo del componimento: le braci vive del sangue! E per quanto tenaci e infiammabili siano le braci, non sono certo più fiamme. Ma scaldano ancora (termine chiave) e bruciano vive.

Di tutte le braci vive / del sangue, […]

Il fulcro caldo del testo si è fatto di ghiaccio, è già gelido nel giro dello stesso verso, in forma speculare. Specularità che come sempre in Caproni non si somma in doppio ma si elide in un vuoto.

[…] poche bacche / rosse nel gelo.

Da ultime gocce di sangue a bacche nel gelo. Quanta concretezza di immagini in versi così glaciali e radi. Quelle scintille lontane sulle creste continuano. Amori, ardori e slanci, imprese, frane, avventure e cacce… Alzate dal vento del tempo. Poi, qui, questo:

Poche / smarrite ortiche.

Quelle stesse erbacce pungenti che trovammo (in sinestesia magistrale) nell’udito dei morti (23 – OSPETTO). Il silenzio si fa più vicino.

Resta altro?
Altre riminiscenze del corpo?
Cos’altro. Oltre il silenzio.

(“…E un ricordo / – troppo vago – di vene.)

Ipotesi vaga, tra parentesi; …sommessamente.

Ipotesi che neanche si sente.