Etichettato: Dante
Il Ponte.
Poi una sera mi son rotto i coglioni. Spento Netflix, notizie, opinioni… Eccomi, deambulo a vuoto nella penombra. Affogo o respiro? Afferro il mattone riposto sul piano, mi ci cade lo sguardo, apro a caso l’OPERA IN VERSI del mio amico Giorgio, massì. Sentire un amico fa bene ogni tanto. Apro a caso e mi escono questi:
ALLA PATRIA
Laida e meschina italietta.
Apetta quello che ti aspetta.
Laida e furbastra italietta.
AHIMÈ
Fra le disgrazie tante
che mi son capitate,
ahi quella d’esser nato
nella << terra di Dante >>.
La sezione delle rime ANARCHICHE, all’interno di “Res amissa”, la raccolta che uscì postuma, dopo il 1990, finiva così.
Pensierini.
Stessa raccolta e sezione dalla quale – tra parentesi – fu estrapolato il famigerato tema d’esame della Maturità 2017, quando il nostro balzò agli onori delle cronache raccogliendo una buona dose di imbecillità tricolore: “…ma chi cazzo è questo” fu il commento quasi unanime della nazione.
Svolgimento.
Ruttanti e scoreggianti, un paio di neuroni residui che tengo nascosti, se ne escono dal retrobottega fetido della mia mente e occuparono due tavoli all’osteria Le Vecchie Tempie, proprio qui all’angolo della mia testa, rimbalzandosi dei botta e risposta.
Terra di Dante.
Uno di quei due neuroni, il più brillante, dandosi delle arie, ripensava – ma pensa un po’ – proprio a Dante e a certe mie vicissitudini recenti.
Sei tu quello là – mi dice ruttando – che se ne va in giro a spacciare letture di Dante, di roba del Sommo che nessuno si fila? Coglione sfigato che sei. Beccati ‘sta scena di un mesetto fa, te la ricordi?
E mi rispedisce in un ufficio comunale qui delle mie parti (più precisamente in Italia), dove un Assessore alla Cultura, gentile e solerte, volenteroso ma disarmato di fronte all’evidenza dei fatti, mi confessa candidamente che no: Dante non interessa, perché Dante… Come dire, è cultura.
Rivedo me, anch’io un po’ abbacchiato, mentre annuisco all’assessore, ed effettivamente non posso che confermare. AHIMÈ. Sì, in effetti Dante, sarebbe, tipo cultura. Ahimè, sì.
Ma non essendo cultura come un vino o un agnolotto, Lei capisce bene, che in quanto tale, non ha spazio in bilancio. Non me lo passano.
Capisco, ci mancherebbe altro.
Coglione.
Poi attacca l’altro neurone e ruttando mi da del coglione, per una serie di motivi che non sto ad elencare, alcuni anche evidenti… E poi insiste a girare coltelli nelle miei piaghe e, tra questi, ce n’è uno lungo a lame frastagliate che, più o meno, fa così.
Stronzone.
– Minchia quello della cultura! Dovresti vergognarti anche solo a nominarla. Tu lo sai, lo sai che hai mollato il blog su Caproni a gennaio 2018, promettendo dell’altro che poi non hai più scritto un cazzo, te lo lo ricordi, sì? Vergogna. Lo sai che tal Zanotti Emiliano ti sgancia un euro al mese (per un cazzo!) e che i Fantastici Quattro Lettori non san manco più se esisti? Ormai ti danno tutti per bollito su Netflix o a ravanare Metal anni Ottanta su Youtube. Buonista di merda, vergogna.
Buffone.
– Vero! Ma non solo. Scommeto – fa l’altro, scoreggiando – che non sai manco più dov’eri rimasto su quel cazzo di blog di merda. Vediamo un po’ come stai messo a memoria, dai, spara qualche verso del Conte di come-cazzo-si-chiama, dai, che vogliamo ridere. Spara! Spara! SPARA!
Muori.
Muori disse il neurone. E io, imbabanato come un facocero scrollato dal letargo, estraggo in piena notte a caso un verso, vediamo un po’… LA FRANA. Com’era più? Così.
No, il Conte non stravedeva.
Anzi, aveva avuto fiuto, il Conte.
Giorno: il 14 luglio.
[…]
Sul ponte,
pugnalato e in tremore.
BOOM!!!
La frana, il ponte… Ti dice niente?
Il neurone più sveglio (non so quale dei due) mi esplode in testa al suono di quella data, gli ricorda qualcosa. Non il 14 luglio, ma il 14 agosto, cazzo: il Conte si era sbagliato sì, ma di pochino.
– Che cazzo stai dicendo Joh!? – Parla ormai come in un serial televisivo.
– Genova, 14 agosto, poco più di un mese fa…
– Oh cazzo… Il ponte, pugnalato e in tremore…
– Com’era più?! La stiamo perdendo! Via! via! via! Boom!!! Figli di puttana.
– OK Joh, ma stai calmo.
Ecco LA FRANA, apparve proprio ad agosto (2011) su questo blog (aprila in un’altra finestra). Che ironia.
– Oh com’era diverso il nostro stile; oh come anche noi – come tutto – siamo andati in vacca.
– Vacca tua madre. Rimettila qui di seguito, tirchio. E mettici l’audio e pure il testo. E poi basta, ‘sto post di merda chiudilo qui. Per gente sveglia come noi non c’è da aggiungere altro.
LA FRANA
No, il Conte non stravedeva.
Anzi, aveva avuto fiuto, il Conte.
Giorno: il 14 luglio.
Anno: quello tra Il Flauto Magico,
a Vienna, e, a Parigi, il Terrore.
In lui, non il minimo errore
di calcolo.
Anche se non esisteva,
la Bestia c’era.
Esisteva,
e premeva.
Nel cuore.
Tra gli alberi.
Sul ponte,
pugnalato e in tremore.
Uscito dalla mia tana,
guardavo – nel linciaggio
della mente – il paesaggio.
Ai miei occhi, una frana.
La frana d’un’alluvione.
La frana della ragione.
[Le sottolineature sono mie]
Bucio de cuore.
E invece io aggiungo. Perché l’altro neurone non era poi così convinto. Va bhè dai, coincidenze, il caso, una dose di culo (cioè sfiga a dire il vero..). Mi vorrai mica dire preveggenza?
Signori. Coincidenza o preveggenza, resta il fatto. Anche un orologio guasto segna l’ora esatta due volte al giorno, certo.
– Cazzo c’entra, ruttò il neurone.
Resta il testo.
Resta nel tempo.
Non il minimo errore di calcolo, …ecco magari no, diciamo che s’è sbagliato di un mesetto.
– Ma che cazzo sarà successo mai quel 14 di luglio?
Tutto.
La rivoluzione.
– Ma l’anno? L’anno non era mica quello, non è lo stesso.
Come no: l’anno, un anno o l’altro, …è esattamente lo stesso!
L’anno è quello. È sempre quello. Non siamo praticamente sempre tra il faluto magico di un pifferaio di turno e il terrore del giorno? Non siamo sempre alla Rivoluzione?
E dove siamo, se non a Parigi? La capitale del più elevato ed illuminante pensiero filosofico occidentale, che rischiarò le tenebre del Medioevo, per produrne, giustamente, gradualmente, inesorabilmente, un altro. Ma tutto nuovo.
Parigi.
Cioè ovunque. “In ogni dove”. (Così si apriva l’Operetta, con IL FONDALE DELLA STORIA – Un fondale fittizio, certo, di cartapesta. Come la nostra, appunto, come questa, come quella, come TUTTA la Storia).
E dopo il disastro usciamo dalla tana, la mente linciata, sgraniamo gli occhi alla rovina.
Il diluvio è sempre.
Genova, 14 agosto 2018.
La ragione frana sempre, ovunque, continuamente. I ponti si fanno, i ponti cadono (…o almeno, quelli che facciamo noi, può essere). E la Bestia c’era. L’han vista tutti, infatti nessuno sa com’è fatta.
Nei cavi mancanti, nelle foreste di calcestruzzi, in tutte quelle inutili preventive e postume perizie, parole, perizie, parole, perizie, parole, perizie, parole, perizie, parole, perizie, parole, perizie, parole, perizie, parole, perizie, parole, perizie, parole, perizie, parole, perizie, parole, perizie, parole, perizie, parole, perizie, parole, perizie, la bestia, parole, perizie, parole, perizie, parole, perizie, parole, perizie, parole, perizie, parole, perizie, parole, perizie, parole, perizie, parole, perizie, parole.
La Bestia c’era, esisteva e premeva. Era nel testo: era nel CUORE. Parola sacra alla patria.
Genova è nel cuore. Adesso. Prima era più verso la milza. Ma adesso è nel cuore, lo dice la maglietta. Ma non solo: abbondanza e riparazione. Tutto a costo zero, quindi spara dei gran cuoricini, zio.
Eccoli, fin che vuoi, gli italici cuori, che ci riparano il ponte, ci ri-parano il culo e siamo a posto: che carini, che grandi, schierati come tanti palloncini in un cielo gonfio di balle colorate a formare un unico grande cazzo di cuore di merda. Così parlò il neurone scoreggia, e conquistò la mia stima. Ancora una volta: IL CUORE, geniale.
Evacuare di cuore.
Ci avevano messo il cuore nel farlo, ‘sto ponte? Magari un po’ meno, magari un po’ a cazzo, ma era tutto fatto col cuore, il nostro cuore pulsante di italiani di cuore, nel cuore del boom economico. E se manca un cavetto, che sarà mai, non ce l’hai un po’ cuore? Ma adesso. Adesso che c’è da rifarlo, ‘sto ponte, vogliamo rifarlo davvero col cuore? Eccome. Non la vedi la maglietta? Se lo dice la maglietta, fidati, è fatta.
Vomito un attimo e sono subito da voi.
Ma se ghe penso.
Caso o preveggenza, il fatto – così come il verso di Caproni, anzi qui il verso è il vero fatto – il fatto resta. E resta per sempre, come il crollo del ponte Morandi. Nella fattispecie a Genova. Più precisamente, in ogni dove.
La Bestia era (è) (sarà) “…sul ponte, / pugnalato e in tremore”.
Ed ecco Genova, signore e signori. Usciamo dalla tana e guardiamola. La Genova di Caproni. Pugnalata e in tremore. Fosse retorica sarebbe bello, ma AHIMÈ si tratta di cronaca. Cronaca Italiana.
E pensa che culo Giorgio mio, non averla vista, almeno tu, per un soffio; che ti sei perso l’ultimo trentennio. (Chissà le meraviglie che ci perderemo noi). Cambiato qualcosa? Certo, cambiato identicamente tutto. Rivoluzionato il mondo. Non ti dico l’Italia, poi. Infatti è sempre diversamente uguale.
Ti accendo un telegiornale? Anche no? Ok.
Canta Morandi.
Pensa un po’ che davvero, anche sul Ponte Morandi la Bestia era già lì.
In attesa. Aspettava. Lo si sapeva. L’avevano annusata, avvistata… L’avevano intravista, nel degrado della superficie: …ma chi avrebbe mai potuto immaginare – con tutto il cuore – che li degrado fosse anche dentro (sic) e fosse vero (sic), producesse effetti (sic). I cacciatori provetti avevano sparato qualche colpo a zero, un po’ qua un po’ là, come si fa da noi, un po’ in alto, un po’ a caso, un po’ a culo, con tutto il cuore.
Ma poi a un certo punto era pronta la pasta.
E così niente, alla fine la Bestia ci ha stanati Lei.
Una mossetta, una cazzatella da Natura leopardiana nella Ginestra, anche un po’ stronza. (La Natura stronza immaginata da un gobbo, ovvio, mica qulla ridente nostra che sorride a noi che siamo sani). Vabbè dai, siam gente solare. Ora ci mettiamo un’alta bella botta di cuore e toreneremo a sorridere.
Chi è di scena?
Bene. Siamo a prima dei sorrisi distensivi e rassicuranti, giusto? Allora. Il copione dice che adesso è il tempo di un bel po’ di SCONCERTO (ma pensa, ci eravamo lasciati proprio con questo). E arriveranno, vedrai Giorgio, “…i restauratori / […] Forti. / Alti. / Tutti più alti del vero”). Ci avevi preso anche in questo.
[…]
La Reggia, il Tribunale, il Duomo…
Com’erano, così paurosamente
– e in un sol lampo – spariti?
Ops, pure il ponte? Oh cribbio.
Comunque è pronto in tavola.
La nostra cultura è buona.
Noi facciamo i ponti belli e poi ce li crollano gli altri. La vulgata è pressapoco questa. Così a caldo, dal cuore. Ma la cultura, la nostra, è buona. L’orgoglio nazionale mai così alto.
Perché siamo buoni, essere buoni è la nostra cultura. Ma mica come Dante e tutti gli intellettuali del cazzo – ruttò il neurone. No. Buoni come il vino, l’agnolotto… Quelli sì che li facciamo bene e (salvo quando allungammo giusto un po’ col metanolo), quelli, il vino, la pizza, la parmigiana con le melanzane, ci vengono benissimo e non ci sono mai crollati addosso. Vai tranquillo.
– Prova a farla senza le melanzane ma solo col cuore la parmigiana, e poi vedi.
– Ideona – scorreggiò il neurone – che il nuovo ponte lo facciamo fare allo Chef.
Fine.
E alla fine, come vedi, anche io la faccio franca: di tutti i post promessi a inizio anno, eccone un altro e con questo fanno due. Due bei post targati 2018 li ho cacati: bella. A posto così. Questo è pure bello lungo, fattelo bastare. Zanotti sgancia l’euro e fatteli bastare. Fantastici Quattro, sucate. Io vi lascio di tutto cuore con la fine. Cioè l’inizio. Come sempre la Bestia è un loop: coincidono.
ALLA PATRIA
Laida e meschina italietta.
Apetta quello che ti aspetta.
Laida e furbastra italietta.
AHIMÈ
Fra le disgrazie tante
che mi son capitate,
ahi quella d’esser nato
nella << terra di Dante >>.

105° post compleanno.
7 gennaio 2018. Buon compleanno Giorgio, con questo fanno 105. Un pensierino, ci sta, un bel post. Manco da molto, lo so. Emiliano Zanotti mi versa 1€ al mese con bonifico automatico a sostegno del blog, e io non ho più scritto una riga qui da giugno. Emiliano: ti devo 6,00€
Ma pensa che storia, questo (me lo certifica WordPress con estrema esattezza) è proprio il 105° post, pari al numero dei tuoi anni. Il numero dei tuoi anni è pari al numero dei miei inutili commenti, dei miei clic sul tasto “pubblica”. Manco un cabalista svizzero avrebbe mai beccato un bingo come questo. Pensa che jolly, che coincidenza.
No, non si vince niente.
Ma un paio di letture eccole.
Sconcerto.
I restauratori, quelli tutti più alti del vero, arrivano e non trovano niente a parte il vuoto. La reggia, i tribunali, il duomo (potere, raziocinio, religione), dove vanno a finire dopo? Nel dirupo. Nel vallone. Con tutte le opere buone, i buoni propositi, le promesse elettorali, i fioretti a Padre Pio, i discorsi di fine anno a reti unite, le convergenze parallele, gli election day (giuro, ormai qui si chiama così, ci fa sentire meno ignoranti, suppongo – ma tutto sommato è positivo, così la cialtroneria traspare chiara fin dal titolo) e tutti i compleanni del cappellaio matto.
Pensatine.
Dopo averle pensate tutte…
Per le spicce.
L’ultima mia proposta è questa.
Se volete trovarvi, perdetevi nella foresta.
Fantastica sintesi. E qui tu parafrasi l’incipit della Commedia, ci arriva pure un liceale. Ma sai che c’è: …da alcuni altri versi della raccolta, con ricorrenze di rime esatte e inconfondibili, si risale alle Rime Petrose di Dante (…ecco dove le avevo già orecchiate!); parallelismi che non sono coincidenze.
E le Rime Petrose, a parte i disadattati come me, non le conosce nessuno. E a parte te, Montale, Eliot e pochi altri sprovveduti, le Petrose non se le fila proprio nessuno, manco la Società Dantesca. Pensa, anche in questi gironi c’è la serie B.
Così ho intrapreso un altro viaggio, ritrovandomi puntualmente, magnificamente perso. Ma di questo (se mi riprendo – e mi riprenderò, prometto) ti racconterò presto. Ok. Manco da troppo tempo.
Promesso.
“In perpetua corsa”.
Riporto qui, a distanza di tempo, come promesso, a margine de IL FLAGELLO, un passo di un ottimo articolo di Elisa Donzelli scoperto oggi per caso, che proprio oggi fa al caso mio. Ne cito una parte ringraziando infinitamente l’autrice. Ripercorre (tra le altre cose, e ne consiglio una lettura per intero) le tracce di alcune fonti all’ispirazione caproniana per l’allegoria della Bestia. La lettura è lunga ma prometto gran ristoro al fondo.
Le fonti dell’ispirazione, come è normale, saranno state in sinergia con il tema già a lui caro della caccia, le leggende del Gevaudan, l’Avviso del Conte del 1792 ecc. Qui se ne scoprono radici ancor più lontane. Legate alle prime letture e ad un episodio vivido della sua giovinezza. Giorgio Caproni ultrasettantenne rielabora, magistralmente nella sua ultima composizione, infatuazioni e riminiscenze del ventenne che fu solo ieri.
Tracce della Bestia sull’erba.
Indizi odierni del giallo. Un poeta francese amato in gioventù; un suo libretto di poesie appartenuto a Caproni ventenne; una traccia di rossetto a pagina 17; una ragazza amata e persa, morta troppo in fretta; una cerva, apparsa sull’erba; reminiscenze di un sonetto del Petrarca. Una Bestia sfuggente, sempre, unica preda degna.
Fine anni Venti: Dante in edicola.
Dall’articolo di Elisa Donzelli: “[…] Il “baco della letteratura” Caproni diceva di averlo preso alle elementari, anni di “miseria nera” durante i quali leggeva Dante in un’edizione a dispense comprata dal padre in edicola. Giovanissimo, oltre ai classici e ai contemporanei, aveva scoperto i filosofi cui si era unita la passione precoce per la poesia straniera. L’elenco sarebbe lungo ma […] spicca il nome di un poeta francese [di Arras ndr] della generazione di Ungaretti, Pierre Jean Jouve, cui in Italia non si presta grande attenzione.”
Dunque tra le prime letture del Caproni in erba, spicca il nome (piuttosto sconosciuto in Italia) di un grande poeta francese Pierre Jean Jouve.
Rete di coincidenze.
Ancora Elisa Donzelli: “Tra gli scaffali del Fondo Marconi [a Roma, ndr] è nascosto un libretto di Jouve, Per esser gai come Titania, [appartenuto a Caproni ventenne ndr] che Aldo Capasso aveva pubblicato nel 1935 traducendo alcuni dei versi più incisivi del poeta di Arras. Dico nascosto perché il profilo sottile della Collezione degli “Scrittori Nuovi” di Emiliano degli Orfini [editore ndr] (la stessa che nel 1936 avrebbe accolto, grazie a Capasso, l’esordio poetico di Caproni Come un’allegoria […]) rischia di essere messo in ombra da volumi più corposi […] di un grande autore del Novecento francese.”
Tracce di rossetto sul foglio.
“[…] Quell’edizione curata da Capasso ha qualcosa in più rispetto agli altri volumi della Biblioteca. Chi si appresta a sfogliarla troverà tra le pagine ingiallite alcuni appunti che Caproni aveva segnato a margine dei testi. Fino a qui nulla di nuovo perché i libri del Fondo Marconi si presentano proprio così: note, pensieri, versi interrotti e scritti a mano con una grafia cuneiforme. Ma nel libretto di Jouve accanto alla poesia diciassettesima, sotto la traccia sbiadita di un rossetto rosso depositato sul margine del foglio, Caproni aveva scritto a matita un appunto veloce che a tentare di rileggerlo appare più o meno così:
‘Il segno rosso è un bacio di Olga datovi a Neiron[…] in una giornata di serenità’. Perché cadde proprio in questa poesia? E per di più è 17esima (17 febbraio amandoti, 27 febbraio peggiorando, 7 marzo morta a 27 anni!)’.”
Olga bacia la pagina 17.
Di Olga Franzoni, prima fidanzata del poeta morta in Val Trebbia nel 1936, la critica ha parlato molto. A quella ragazza, da poco scomparsa, Caproni aveva dedicato la prima edizione di Come un’allegoria [1936] e l’ultima poesia di Ballo a Fontanigorda. L’episodio della sua morte l’aveva ricordato nel racconto Il gelo della mattina, iniziato nel 1937 e simile allo Jouve di Dans les années profondes del 1935.”
Per i filologi dei secoli dopo.
Parentesi. Struggente immaginare un giorno di serenità di due ventenni degli anni Trenta (chissà dove: …sull’erba?) con un libretto di un oscuro poeta francese, e lei che gli lascia (per sempre) una traccia delle sue labbra su una pagina.
Oggi quel libro è conservato a Roma, nel Fondo Marconi, per i filologi dei secolo dopo.
“Poi il nome di Olga era scomparso ma la sua ombra era tornata a vivere nei Sonetti dell’anniversario del 1942 e nei versi di E lo spazio era un fuoco entrambi ambientati in una Roma di rovine e macerie dove il rossetto di quella ragazza spargeva, in incognita, i suoi segni febbrili […]. Oggi, grazie al libretto di Jouve conservato nel Fondo Marconi, la sua immagine di ragazza-lettrice scavalca ulteriormente l’eterno femminino della tradizione lirica italiana per mostrare una nuova natura camaleontica.”
I versi della pagina 17.
“Secondo Ungaretti in Jouve “l’amore si converte in morte spaccato dal peccato” e Risi […] ha aggiunto che per salvarsi l’uomo “esteriorizza i fantasmi che lo divorano”. Lo confermano i bestiari jouviani che riesumano la cerva di Petrarca e che inscenano il passaggio di una misteriosa bestia:
“Una bestia ammirabile dalla coscia segreta
Passa sulla terra infinitamente ferita –
Piaga di sangue spumeggiante e fresco –
Esso mi trascina, lo sento, fuori della città”.
[…] La Bestia con la ‘B’ maiuscola, si sa, è uno dei grandi temi dell’ultima stagione poetica caproniana ma, rileggendo questo articolo, viene il sospetto che all’anagrafe proprio lei, “(l’ónoma) che niente arresta”, fosse stata registrata sotto il nome di Jouve.”
Cerva, Laura, Olga, Bestia.
(Non a caso un titolo simile è qui). Sottolineerei nell’illuminate passaggio, come l’autrice stessa riveli che l’anagrafe riporti ancor prima una paternità a Petrarca (…e da lui, per ignoranza mia, sicuramente a qualcun altro prima). La cerva fu già allegoria dell’apparizione di Laura (si noti tra i versi del sonetto a seguire il senal provenzale del ramo d’alloro o lauro, segno che ne scherma e rivela la presenza sulla scena). Laura che forse, oltre che donna, fu allegoria ella stessa. Se così non fosse non sarebbe giunta a noi.
Una cerva superba, libera e imprendibile. Vista per un istante. Persa per sempre. Francesco dice: io caddi in acqua e lei sparì. Ce lo racconta così.
Francesco Petrarca, dal Canzoniere (Rerum vulgarium fragmenta), sonetto 190(qui un pdf del testo con traduzione inglese)
Una candida cerva sopra l’erba
verde m’apparve con duo corna d’oro,
fra due riviere all’ombra d’un alloro,
levando ’l sole a la stagione acerba.
Era sua vista si dolce superba
ch’ i’ lasciai per seguirla ogni lavoro,
come l’avaro che ’n cercar tesoro
con diletto l’affanno disacerba.
“Nessun mi tocchi,” al bel collo d’intorno
scritto avea di diamanti et di topazi.
“Libera farmi al mio Cesare parve.”
Et era ’l sol già vòlto al mezzo giorno,
Gli occhi miei stanchi di mirar, non sazi,
Quand‘ io caddi ne l’acqua et ella sparve.
Inseguirò la mia cerva.
Perché l’ho vista sparire. Appare e scompare in tutte le vite. Se l’hai vista non puoi non lasciare per seguirla ogni lavoro. Alla luce di questo, se vi va, se non siete esausti dopo una battuta di caccia un po’ troppo lunga (…se avete avuto la forza di leggere – reggere – fino a questo punto!), riascoltiamo i versi finali della prima parte de IL FLAGELLO (41), dove appariva controluce proprio lei, subito persa eppure: sola preda degna.
“Da inseguire sempre / da inseguire ancora / fino ai laghi bianchi del silenzio”
Ma questo è Paolo Conte: …è della partita? Come no, sui titoli di coda. Verso la fine. Ci sta.
54 – CONTROCANTO
Contro-canto di Caproni al Primo Canto, forse i più famosi versi della storia della letteratura mondiale. L’incipit della Comedia di Dante, quella che la storia ci tramanda – giustamente per valore e ambientazione – come Divina; quella che qui Caproni riprende (osa!) nella sua ultima opera, riportandocela definitivamente alla sua dimensione umana.
Nel mezzo del cammin di nostra vita…
E in quanto umana, la commedia, e qui s’intende quella della vita reale del singolo, non ci mette solitamente troppo in crisi sul principio o nel mezzo del nostro cammino, o almeno non quanto piuttosto verso la fine. Semplicissima constatazione. Il controcanto parte da qui. Quello è il passo che attende, inequivocabilmente, inevitabilmente, Dante, Giorgio, me, te, chiunque. Indifferentemente. Indifferentemente da tutto. In un contesto naturale totalmente indifferente al fatto.
Chiarezza di un passo duro, oscuro.
Il passo duro, oscuro è e sarà per sempre questo e solo questo. Nell’orizzonte del cielo caproniano è notte e le stelle (che vorremmo uscire a rivedere?) non hanno acqua per la nostre sete di certezze. Sboccia qui uno dei versi più belli di tutta una vita in versi: quello che constata l’assenza di rinfresco dal duro cielo siderale, nessuna acqua stellare sull’incaglio – rappreso e impenetrabile – del nero. Come nero è il buco che lasciano le stelle.
Dopo tante latterie, la Via Lattea.
Solo un grande poeta può rendere così potente una allegoria cosmico-casearia: parlando del cosmo qui si allude al formaggio, al caglio, al destino dei latticini. Impresa impossibile per chiunque, non solo evita il ridicolo, ma lancia un sasso con una forza che esce dall’orbita di secoli di letteratura in versi.
Caseificio spaziale?!
Sulla carta così azzardato, ma nei fatti quasi scontato: a pensarci un attimo, non chiamiamo forse ‘Lattea’ la ‘Via’ che battiamo nello spazio? E (per chi la bazzica), non è forse costellata di umili latterie di quartiere (oltre che di osterie di sobborghi) la poesia di Caproni? Sì, …possiamo anche spendere una volta l’ovunque (tranne qui) abusatissimo aggettivo: geniale.
Tre passi, tre sentieri. Tre canti. Tre misteri.
Ecco dunque tre sentieri: quello storico letterario di Dante. Quello del singolo uomo contemporaneo, nell’esperienza della propria esistenza; quello del nostro sistema nello spazio siderale. Nessun punto d’incontro. Occhio: …il piede incespica.
Rispondere a Dante per le rime.
In una manciata di versi Caproni riprende Dante, lo ricostruisce, lo demolisce, lo ri-costruisce suo (nostro); e lo fa sul suo stesso cavallo di battaglia universalmente noto. Senza il minimo imbarazzo reverenziale gli risponde per le rime (come si usava ai tempi di Dante stesso: da quella usanza nasce l’espressione). E ne crea l’unico contraltare, l’unico controcanto possibile, credibile e infinitamente odierno (come l’originale), di tutta la letteratura mondiale: da Dante in poi.
Questo, zitto zitto, osa fare un umile maestro elementare.
Che non definì sé stesso mai poeta.
Ultimo appunto.
Asparizione.
Neologismo di conio caproniano dato dalla crasi di apparizione e sparizione. Ne sottolinea la simultaneità. Ci si chiede che cosa possa acquisire cadenza (termine musicale e temporale e fisico insieme, alla caducità umana), se anche l’uomo (come i simulacri di alberi e cattedrali) non è che ombra e fumo; una semplice asparizione.