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il cosmo "rima" in Giorgio Caproni.

105° post compleanno.

7 gennaio 2018. Buon compleanno Giorgio, con questo fanno 105. Un pensierino, ci sta, un bel post. Manco da molto, lo so. Emiliano Zanotti mi versa 1€ al mese con bonifico automatico a sostegno del blog, e io non ho più scritto una riga qui da giugno. Emiliano: ti devo 6,00€

Ma pensa che storia, questo (me lo certifica WordPress con estrema esattezza) è proprio il 105° post, pari al numero dei tuoi anni. Il numero dei tuoi anni è pari al numero dei miei inutili commenti, dei miei clic sul tasto “pubblica”. Manco un cabalista svizzero avrebbe mai beccato un bingo come questo. Pensa che jolly, che coincidenza.

No, non si vince niente.

Ma un paio di letture eccole.

Sconcerto.

I restauratori, quelli tutti più alti del vero, arrivano e non trovano niente a parte il vuoto. La reggia, i tribunali, il duomo (potere, raziocinio, religione), dove vanno a finire dopo? Nel dirupo. Nel vallone. Con tutte le opere buone, i buoni propositi, le promesse elettorali, i fioretti a Padre Pio, i discorsi di fine anno a reti unite, le convergenze parallele, gli election day (giuro, ormai qui si chiama così, ci fa sentire meno ignoranti, suppongo – ma tutto sommato è positivo, così la cialtroneria traspare chiara fin dal titolo) e tutti i compleanni del cappellaio matto.

Pensatine.

Dopo averle pensate tutte…
Per le spicce.
L’ultima mia proposta è questa.

Se volete trovarvi, perdetevi nella foresta.

Fantastica sintesi. E qui tu parafrasi l’incipit della Commedia, ci arriva pure un liceale. Ma sai che c’è: …da alcuni altri versi della raccolta, con ricorrenze di rime esatte e inconfondibili, si risale alle Rime Petrose di Dante (…ecco dove le avevo già orecchiate!); parallelismi che non sono coincidenze.

E le Rime Petrose, a parte i disadattati come me, non le conosce nessuno. E a parte te, Montale, Eliot e pochi altri sprovveduti, le Petrose non se le fila proprio nessuno, manco la Società Dantesca. Pensa, anche in questi gironi c’è la serie B.

Così ho intrapreso un altro viaggio, ritrovandomi puntualmente, magnificamente perso. Ma di questo (se mi riprendo – e mi riprenderò, prometto) ti racconterò presto. Ok. Manco da troppo tempo.

Promesso.

“Tutte le poesie” (Garzanti 1983), recensione di Gian Luigi Beccaria

Recensione di Beccaria, G.L., L’Indice 1984, n. 1

Giorgio Caproni, Tutte le poesie.
Gli Elefanti, Ed. Garzanti, Milano 1983.

La recensione si trova riportata qui.

La poesia è (pare un assurdo) quanto di meno irrilevante, di più terrestre e di maggior tenuta circoli tra gli uomini, e proprio oggi, in una civiltà che promuove l’oggetto, invece, di rapido consumo, l’oggetto-lusso, l’oggetto destinato a cambiare, destinato a essere utilizzato. Il più inutile (la poesia appunto) è proprio quanto continua a restare, quello che è cambiato di meno, da Omero a oggi: di tutti gli oggetti (e non solo artistici) il meno provvisorio. Un libro come quello di Giorgio Caproni, che raccoglie tutti i componimenti suoi scritti in un cinquantennio di attività (1932-82), è lì a dimostrarcelo, nel suo volume, nella sua consistenza, nella sua altezza suprema.

A questo libro (non ne sono usciti poi molti in Italia, nel Novecento, di pari altezza) è delegata la dimostrazione di quanto or ora dicevo, e la dimostrazione della tenuta grandiosa che ha inoltre la poesia di fronte a tanto inesorabile cancellarsi, oggi, di identità individuali e collettive, di fronte al progressivo sgretolarsi di ogni etica personale e comunitaria. E forse, tanto più perché in Caproni la dimensione sociale, l’ideologia istituzionalizzata è “sentita fuori della storia e come privatizzata” (Mengaldo): soltanto sopra tutto la vita di tutti i giorni è, nella sua poesia, il luogo dell’autenticità, della totalità della vita.

Fisica e metafisica

La poesia di Caproni, nelle prime raccolte, è tutta fisica-esistenziale; nell’ultime, metafisica. Ma vi corre un filo di continuità. È entrato con naturalezza, prima nell’elegia della vita quotidiana e nel fantastico del ricordo (sua madre giovane e Livorno, ne “Il seme del piangere”), poi, nella maturità, con altrettanta naturalezza, nei luoghi misteriosi dell’Aldilà e dell’altrove (“Il muro della terra”, 1964-75; “Il franco cacciatore”, 1973-82). Una naturalezza, prima nei versi in origine musicali, poi nel quasi parlato della scansione netta, nei versi più incisi. Un’essenzialità prima nel cantabile, poi nella sentenza. Nessuno come lui ha saputo prima cantare e narrare insieme, poi narrare e continuare a cantare, insieme.

Narrazione esistenziale

Narrare: ma non c’è alcun dubbio che la poesia è traffico coll’inconscio, e che poesia non è lucidità raziocinante, esposizione, prosa. Eppure, se le sensazioni oscure sono per il poeta le più interessanti, è a condizione che le renda chiare: “se percorre la notte – scriveva Proust -, lo faccia come l’Angelo delle tenebre, portandovi la luce”. La luce a Caproni viene anzitutto dalla linea esistenziale (e non orfica) della sua lirica, che partecipa direttamente un’esperienza, una biografia, e quell’esperienza, quel suo vivere, comunica in parola “fraterna”, non ingolfata nei labirinti del manierismo, nell’esasperazione della tecnica, nel feticismo del significante. Il lettore medio difatti non si è forse arreso talvolta alla poesia contemporanea come di fronte a un gioco di parole che non lo informano più? Caproni invece coinvolge tutti, l’addetto e il lettore meno provvisto di sapienza critica. È una delle grandi eccezioni novecentesche in questo senso.

Indenne tra le mode

Con l’incanto popolare della sua pronuncia attira chi principia a leggerlo, e più non lo lascia. Caproni, fedele al principio della continuità della poesia, anche negli anni in cui avanguardie sembravano averne svuotato la stessa idea, è passato indenne tra le mode. È difficilmente classificabile (“uno degli uomini più liberi del nostro tempo letterario”: così Pasolini, il primo ad averne parlato compiutamente in un saggio). Con imperterrita coscienza del suo dono (l’essere poeti, è prima di tutto – dice – una qualità quasi fisiologica) ha continuato a produrre versi che da cinquant’anni circolano, sono letti, aperti a tutti, amati, consumati, e non solo da pochi intendenti sacerdoti dell’ineffabile.

Senza ricadere nel solenne

Senza ricadere nel solenne, nel classico, ha tenuto fermo un aggancio forte con la tradizione e con la popolarità: popolarità e tradizione di struttura anche, se pensiamo al punto d’attacco che Caproni ha mostrato con la ballata antica, coi modi del melodramma, con la canzoncina arcadica, una canzonetta rinata robustamente nei suoi versi brevi, e l’assunzione della rima facile e insieme sapiente. E poi la popolarità, il quotidiano delle situazioni: forse soltanto Saba ha saputo nel Novecento, come Caproni, rappresentare con altrettanto disincanto ambienti popolari, o la città in certe ore del giorno, l’alba soprattutto, i rumori, i suoi sapori, colori, odori.

Senza ricadere nel solenne, dicevo, è riuscito, non negli esordi soltanto, ma ancora nelle ultime cose, a ricercare e a proporre la dizione, la costruzione del discorso poetico, con una forza di concentrazione formale inarrivabile (oggi soltanto Zanzotto sa costruire come lui sonetti in tensione, compatti e snodati, di inarcatura unica). Certo, pochi come Caproni sanno chiudere un sonetto, ma soprattutto, come ancora notava Pasolini, aprire una lirica, con tensioni interiettive subito sorprendenti. Solennità, e nello stesso tempo raso-terra, semplicità di una quasi-prosa nei suoi versi melodici e parlati, squisitezza e facilità, fine e popolare magistralmente congiunti.

Musica nuova eppure tonale

Caproni ha tardato rispetto a coetanei suoi (è nato nel ’12: compagni di generazione, Attilio Bertolucci, Vittorio Sereni, Mario Luzi; Sinisgalli, Libero de Libero, Alfonso Gatto sono di qualche anno maggiori) ad entrare nel gusto della critica ufficiale. La sua poesia è apparsa facile a volte, innocente, quasi povera, cantabile, d’istinto (“Mia mano, fatti piuma: / fatti vela; e leggera / muovendoti sulla tastiera, / sii cauta. […] Sii arguta e attenta: pia. / Sii magra e sii poesia / se vuoi essere vita./ […] sii fine e popolare…” ” Battendo a macchina”). In effetti il suo ritmo è anche spezzatura e segmentazione artefatta, scarto fonico e ritmico, dissonanza improvvisa, dinamismo e turbine, apparenza di cantabilità e di facilità: un procedere franto ma tenuto su da iterazioni che accumulano tensione. ” Trascinante dolcezza” (Raboni). La tradizione melodica del tradizionale s’intarsia di oralità, di parlato. Caproni fa musica nuova senza abbandonare il tonalismo.

Il primo Caproni

L’antologia garzantiana del ’76 è oggi quasi introvabile. Il nuovo volume edito ancora da Garzanti ci dà ora la possibilità (con l’aggiunta degli inediti “Versicoli del controcaproni” e dei meno noti “Erba francese”) di ripercorrere il cammino intero del poeta. Il più quotidiano delle situazioni, delle occasioni, il più semplice dello stile, o i più intensi e drammatici interrogativi ultimi (la ricerca e l’inutilità della ricerca di Dio, alla fine del libro) compongono un itinerario poetico di grandiosa estensione. Nelle prime raccolte, una geografia, una toponomastica precise (la mirabile Livorno dell’infanzia, la Genova struggente della giovinezza), e il gusto intenso del vivere, dei colori nelle vie animate, e la capacità di “epopea” anche nel casalingo, e di registrazione dei più minuti dettagli del comportamento, senza scadere neppure per un attimo nell’annotazione, tantomeno in squarci di cronaca (Calvino ci ricordava quell’intera strofa del “Congedo del viaggiatore cerimonioso” dedicata al gesto di togliere la valigia dalla reticella e posarla nel corridoio all’avvicinarsi della stazione), e, sempre, una grazia narrativa inarrivabile.

Il secondo Caproni

Nelle due ultime raccolte, invece [l’articolo è del 1984, Il Conte di K. uscirà nel 1986. – Ndr], il grande tema della poesia e della filosofia contemporanea, il nulla, esposto senza enfasi, magniloquenze. Nichilismo calmo, senza retorica, riservatissimo. Torna il tema allegorico del viaggio, caro a Caproni. Un viaggio che lo porta in nessun luogo, o in posti nebbiosi, assurdi, vuoti, di cui non si può aver notizia, “luoghi non giurisdizionali”: è il regno dei morti senza resurrezioni, il regno dove dovrebbe stare un Dio inesistente, un regno vuoto, terra desolata, di paesi distrutti, abbandonati, dove regnano immobilità e silenzio, salvo il vento. Un luogo buio. Dopo il buio non c’è luce. Dio è raggiunto attraverso la sua negazione, in questa proclamazione poetica del nulla. Eppure la radicale asserzione d’inesistenza non ha nulla in Caproni di amaro , di disperato […]. Sono versi in cui Caproni si congeda dal mondo, si avvicina al confine, un confine che non lo separa da nulla, che non divide lui vivo dalla speranza di un Dio negato.

Frontiera

La sua è la religione del vuoto, descritta, commentata con dizione mirabile in luoghi di frontiera, in terre di nessuno dove s’incontrano soltanto guardiacaccia, osterie solitarie, cacciatori sconosciuti, e tutto è solitudine, dolore, addio di un uomo ancora in viaggio o in fuga.

Gian Luigi Beccaria, L’Indice 1984, n. 1 (La recensione si trova riportata qui).

“L’opera in versi” (Meridiani 1998), recensione di Vittorio Coletti

Recensione di Vittorio Coletti, L’Indice n. 8, 1998

Giorgio Caproni, l’opera in versi. Edizione critica a cura di Luca Zuliani, Introduzione di Pier Vincenzo Mengaldo, Cronologia e Bibliografia a cura di Adele Dei.
I Meridiani, Ed. Mondadori, Milano, 1998.
 

La recensione si trova riportata qui.

Ora anche Giorgio Caproni, come Montale, ha la sua “Opera in versi”, impeccabile edizione critica nei “Meridiani” delle sue poesie (non poche le inedite), con un apparato che ne illustra le varie fasi di elaborazione e di stampa e che fornisce, con grande generosità, molto materiale (ma corre voce di un diario dell’autore tenuto finora nascosto dagli eredi; la sua disponibilità avrebbe ulteriormente arricchito l’importante sezione degli autocommenti) utile a conoscere l’occasione, il senso, la destinazione di ogni componimento. Poiché, diversamente da Montale, Caproni si è speso di più e nascosto di meno, l’abbondanza dell’informazione offerta è straordinaria e persino un po’ sgomentante, anche se, nel gran mare, il curatore Luca Zuliani si è mosso con una perizia e una chiarezza ammirevoli e graditissime al lettore, che trova anche nella cronologia e bibliografia della benemerita Adele Dei un eccellente strumento di lavoro.

Voluto persino nel titolo, l’accostamento a Montale si impone e, per chi lo volesse approfondire, si può segnalare, fresco di stampa, l’ottimo volume di Luigi Surdich “Le idee e la poesia. Montale e Caproni” (il melangolo, Genova 1998, pp. 267, Lit 28.000), che utilizzeremo qui ripetutamente.

Montale / Caproni

Surdich, che è tra i migliori interpreti di Caproni, mette in rilievo i punti di contatto esterni e interni tra i due poeti; ma la sua ricerca di convergenze e somiglianze risulta, a ben vedere, anche un catalogo di incomponibili differenze. Basti solo il cenno, da lui fatto, a due dati, per così dire, oggettivi: 1) entrambi i poeti hanno prolungato la loro esistenza con un libro postumo: ma a fronte delle altezze metafisiche di “Res amissa”, gli stucchevoli giochetti montalian-cimiani del “Diario postumo” (per tacere della penosa farsa del legato testamentario che lo ha accompagnato) sono davvero impresentabili, anche a selezionare solo le cose meglio riuscite; 2) la porzione quantitativamente più ampia delle loro poesie, i due poeti la compongono dagli anni settanta in poi; ma anche questo, lo nota bene Surdich, è un “parallelismo rovesciato”, perché, se il Montale da “Satura” in giù scrive il “verso” di quel libro il cui superbo “recto” era sigillato nei tre capolavori della prima stagione, Caproni, con la trilogia “Muro della terra”, “Il franco cacciatore” e “Il Conte di Kevenhüller” (cfr. “L’Indice”, 1986, n. 10), scrive, se vogliamo continuare l’immagine, il “recto” intensissimo di un libro di cui prima, più confidente nelle cose e nel mondo e meno culturalmente attrezzato, aveva fornito, per altro splendidamente, il più disteso “verso”.

Il primo Caproni

Quest’ultima osservazione serve anche a fare i conti con l’introduzione al volume. Qui Pier Vincenzo Mengaldo ripercorre magistralmente la vicenda interna dell’opera poetica caproniana, con un’attenzione per metri e linguaggio da par suo. Mengaldo ha messo in chiaro anche la differenza che corre tra il primo e l’ultimo Caproni, pur ritrovando, acutamente, qualche filo rosso; ad esempio, nel suo essere dall’inizio alla fine “un “decostruttore”, sia o meno questo carattere in rapporto con una percezione del mondo come giustapposizione di fenomeni che il soggetto non sa o non vuole sintetizzare”; nella vocazione alla serialità e alla variazione, nonché alla narrazione, il cui frutto più vistoso è la ricerca del libro organico, della misura poematica; nella ribadita “ontologia negativa”; nel costitutivo (anche se sempre più stilizzato e metafisico) realismo. Ma c’è un punto in particolare, nell’introduzione di Mengaldo, che merita di essere discusso: l’affermazione che “Il seme del piangere è forse il punto più alto toccato da Caproni”.

Il più autorevole studioso della poesia novecentesca elegge, così, come sua più congeniale, una raccolta degli anni cinquanta, che appartiene cioè, per riprendere la metafora di prima, ancora alla stagione del “verso”, della scrittura caproniana più distesa e raccordata. Ora invece, molti lettori (cito, tra gli altri, proprio Surdich) non esitano a sostenere che è il Caproni più frantumato ed ellittico degli anni settanta-ottanta a scrivere, con la trilogia surricordata (anche a tacere dell’incompiuta e postuma “Res amissa”), i più bei testi della sua poesia e i più importanti di tutto il nostro (secondo?) Novecento. La predilezione di Mengaldo per il “primo” Caproni, però, non stupisce, e io la spiego (anche) con ragioni generazionali.

Il secondo Caproni

Il “secondo” Caproni è il poeta del dopo-Novecento, o, se vogliamo, di un Novecento che si è formato su paradigmi culturali non noti o rifiutati dalla critica letteraria della generazione dei Mengaldo: intendo i paradigmi del pensiero negativo (da Heidegger a Blanchot), che, frequentati dalla filosofia, sono stati visti con sospetto e distacco dalla critica, storicista o formalista, ma sempre, per così dire, positiva, storicizzante, antimetafisica. I più giovani (penso, su tutti, al finissimo Enrico Testa), invece, hanno familiari quegli autori e quelle coordinate culturali (recuperate in piena fase di rigetto delle ideologie e delle certezze generali) e sono quindi capaci di una lettura più immediata, di una più diretta sintonia con un poeta ad alta densità metafisica come l’ultimo Caproni. La generazione nata nella prima metà del Novecento ha il suo poeta in Montale (della “Bufera”, soprattutto) e, al massimo, può spingersi fino a Sereni: autori in cui è sempre forte, prima e più della componente filosofica, la dimensione etica (anche se non politica); in cui l’orizzonte degli eventi è quello storico concreto; i riferimenti sono a principi culturali primonovecenteschi (razionalità/irrazionalismo, politica e storia, ecc.).

A misurare la differenza di referenti e di consapevolezza filosofica tra Caproni e Montale basterebbe osservare (sempre servendoci liberamente di Surdich) come i due si misurino col problema del linguaggio, a proposito del quale entrambi si chiedono se è un mezzo o un limite della conoscenza umana. Se per Montale la parola è qualcosa che “approssima ma non tocca” (e dunque conserva un minimo di valore, per quanto povero, incerto), per Caproni, che va al fondo teoretico della questione, è qualcosa che nega e distrugge (“Il nome avvicina alla morte? / No. Il nome è la morte”) e quindi è pura negazione, sottrazione. Stessa cosa si potrebbe notare considerando come la forma ossimorica del reale (“la morsa dell’Equazione” “fra il Tutto e il Niente”), affermata da entrambi i poeti, sia segno in Montale (anche) della debolezza conoscitiva dell’uomo o del degrado morale della modernità, mentre in Caproni è (solo) indice della costitutiva “in-differenza” dell’Essere pervaso dal Nulla fin dall’origine. Caproni è tutto interessato a sondare le dimensioni dell’abisso e non è disposto (al limite della spietatezza) a lasciarsi confortare da umane solidarietà (come Sereni) o da speranze improbabili (come Montale).

Dal “Muro della terra” in poi

Dal “Muro della terra” in poi (ma, in forma forse un po’ troppo esplicita e predicatoria, già dal “Congedo del viaggiatore cerimonioso”), ha preso a scrivere il dramma, a teatralizzare la sconfitta dell’umana ricerca di senso e di salvezza e a disegnare, con ostinazione e in immagini di straordinaria suggestività (per una somma di concretezza e di assoluto perfettamente ricostruita nei suoi addendi da Surdich), la fine di ogni speranza di razionalizzazione, la riduzione di ogni residuo margine di dubbio, l’avanzata non più contenibile del Nulla. E non ha nascosto (in questo ben più acuto e spregiudicato di tanti filosofi) che il predominio del Nulla equivale alla vittoria del Male, risolvendo (e spostando) così il conflitto etico di sempre nella fondazione ontologica della fuga, della sconfitta, della perdita del Bene (ecco dove mirava, già dal titolo, “Res amissa”). La scoperta del Niente originario è resa alla morte e alla violenza; contro di esse non c’è rimedio, né possibilità di opposizione (non ci sono, in lui, miracoli né ironia, semmai una fiera e straziata “allegria”).

Per questo, l’ultimo Caproni è uno dei maggiori poeti dell’età del dopo Auschwitz, che ha misurato l’enormità del male (l’accostamento a Celan è, ancorché solo in parte, ammesso, e proprio per questi aspetti) e assistito alla caduta di tutte le illusioni razionalistiche che speravano di rimuoverla o dissimularla. Per questo, credo, è l’autore più istintivamente congeniale ai giovani che entrano nel nuovo secolo, da essi amato, addirittura, come dice Mengaldo, “con punte di culto”.

Vittorio Coletti, L’Indice n. 8, 1998 (La recensione si trova riportata qui).