Etichettato: serratura
59 – ABENDEMPFINDUNG
W. A. Mozart, K 523 (1787) Lied “Abendempfindung” (“Sentimento della sera” riportato anche con dedica “an Laura”), su testo di Joachim Heinrich Campe, in Fa maggiore. Nell’interpretazione di Elisabeth Grümmer (1911-1986), grande soprano.
Un canto lieto, amaramente ironico per un finale prossimo.
Lieto fine.
Il componimento che Caproni intitola Abendempfindung dà il nome a tutta la sezione finale della raccolta; sezione che, dopo Versi controversi, comprende tutti i brano da Di un luogo preciso descritto per enumerazione in poi. Dunque è cruciale. Va a chiudere. Vediamo come.
Non c’è sembianza – è detto – / che affermi la sostanza.
Il testo di Abendempfindung si apre con una affermazione secca e asciutta in puro stile caproniano: uno di quei versi che sulla carta di ‘poetico’, nel senso comunemente inteso, non ha proprio niente. Una affermazione fredda, precisa e metallica. Come una chiave. Una chiave di volta. Una chiave di lettura. Infatti eccola qui, in apertura. La chiave di una serratura (indizi chiari in 37 e 38). La serratura, questa volta, di un vecchio portone in legno massiccio e pesante, cigolante, che tra poco ci chiuderemo alle spalle.
Una chiave apre.
In un verso riassume tutta l’opera. Non solo Il Conte di K.; tutta la propria Opera in versi: il suo lascito. Quello del più grande poeta del Novecento italiano che, ancora una volta in controtendenza con qualsiasi corrente del secolo suo, diffida e dispera del potere della parola. Dando solo per certo questo: fallisce.
Più chiaro di così?
Potessero imprimersi questo concetto bene in fronte quanti (troppi) insistono, per pigrizia mentale a catalogare la poesia di Giorgio Caproni come ermetica. Come se fosse un sostantivo generico che significasse qualcosa, a parte la loro ignoranza. Quando l’ermetismo come corrente novecentesca attribuisce alla parola in sé capacità quasi divinatorie. Mentre Caproni dice a chiare lettere: la parola (in quanto sembianza) fallisce continuamente la propria missione, non porta a nessun significato fermo o dato di realtà, a nessuna cosa, perché non ne afferra la sostanza. Eppure resta l’unico strumento, l’unica fallibilissima arma. Questa è la condanna. Questo incide lapidariamente nei propri versi (non in remoti saggi critici a margine), ripetutamente, Giorgio Caproni.
Detto questo, che dire?
Lo sguardo spazia e la lingua prova a dire. Dove? Sull’acqua: si riparte dal pelo dell’acqua; dove un rondone, con il suono del suo grido, lima la sfera del globo.
Il suono scolpisce gli elementi, a cominciare dall’acqua, elemento che è in grado di rendere anche visivamente l’idea dell’onda (sonora). Immagine semplice e sublime: l’acqua sferica (qui detta col dantesco e latineggiante spera) limata dal suono (la lima è metallo) stridulo di un uccello in volo. Acqua sferica, sineddoche del pianeta. Nota bene: tutto questo impiegando due settenari (versi di sette sillabe) e il nome di un volatile. Caproni maestro assoluto del minimo per il massimo, del poco per il tutto.
Due alianti altissimi.
Seguendo il rondone lo sguardo trova nel cielo anche qualcosa di umano: di semplicemnte e teneramente umano. Due alianti: il volo senza rumore dell’uomo. Fragile e silenzioso. Eppure un volo. Gli alianti sono due. Uno sarebbe stato troppo ‘eroico’ o troppo solo.
Lo sguardo ridiscende.
Incontra le montagne: più precisamente la cima. Una sola, nera e spigolosa, stagliata netta nel cielo della sera. Una come la vita. Una come il pianeta che si finge una stella (Venere), il pianeta della dea che si specchia in sé stessa, Venere la doppia che si elide: stella del mattino e stella della sera. Insieme inizio e fine.
Il portone si chiude.
Con cautela. Il sentimento della sera però non se ne resta dalla parte opposta della nostra barriera. L’androne risuona, umido vuoto e scuro. Il mondo è fuori. La notte è dentro. Il sentimento della sera in Caproni è il senso nettamente percepito della fine. Un sentimento freddo, composto ma di un umido senza scampo.
La mia preghiera.
Perdutamente e senza revoca alla divinità meno certa. L’unica che resta. Buon ascolto.
49 – LA PORTA
Nell’ultima opera composta (strutturata) in vita da Caproni, c’è questo testo cruciale. Chi ha bazzicato il mezzo secolo di versi dell’autore, sa bene che porte, portoni, soglie, serrature, sono ricorrenti; quante figure fotografate nell’istante infinito e quotidiano di aprire o chiudere un portone, varcare l’ingresso dello scompartimento del treno o il cancello dell’ascensore o la porta dell’osteria (a partire dai primissimi versi di Come un’allegoria, scritti da un Giorgio ventenne); quante ne potremmo contare.
Allo stesso modo sono innumerevoli i passi caproniani dedicati alla rima. La rima che per Caproni è solidità, struttura, armonia, ritmo, sempre “battente”.
La porta e la rima. Questi due miscrocosmi di significati, a ben guardare (e sicuramente qualcuno avrà ben guradato anche meglio di me) si completano e si compenetrano. Sono intercambiabili; sono la stessa cosa.
Battenti.
Da un punto di vista puramente lessicale e terminologico il battente ritmico della rima genera l’immagine del battente della porta (…o viceversa, chi può dirlo). Di fatto in Res amissa (la raccolta incompiuta e postuma successiva al Conte di K.) troviamo un passo eloquente in merito a questa supposizione. Quattro versi, quasi oracolari alla maniera dell’ultimo Caproni, capaci di schiudere un universo incredibilmente vasto e complesso.
Verità inconcussa.
La rima vulvare: la porta
cui, chi n’è uscito una volta,
poi in perpetuo bussa.
Che sia questa la chiave? Qui appare evidente la valenza alternativa di rima come termine anatomico. Rima vulvare è puro lessico specialistico: il margine dell’organo sessuale femminile. La soglia tra l’interno e l’esterno. Le labbra, di una cavità. Appare anche un nesso evidente all’oralità: rima in anatomia indica genericamente il labbro di un varco, ferita o piaga in un tessuto; così come la rima è un fenomeno fonetico orale o, impropriamente diremmo, labiale in un linguaggio poetico. Per azzardo potremmo ricordare come la rima poetica sia proprietà specifica del volgare rispetto al latino. Il tratto distintivo della letteratura poetica della nostra era, dopo la fine della classicità latina.
Lingua madre. Rima volgare; rima vulvare.
Dunque “rima” è il centro di tutto di tutto l’universo caproniano: ma in un senso ben più complesso dell’accezione solita. “Rima” è il rimando al passaggio cruciale: quello nel tempo. Da una rima vulvare (…rima-madre? Ricordate Anna Picchi?) si nasce per entrare nel sistema finito del tempo concesso, dal quale usciremo, di certo. Ma la verità su questo ultimo passo è negata a chiunque. Per cui: busseremo invano in eterno, alla porta della verità; busseremo con il suono battente delle rime (del linguaggio: con la parola) sulla soglia dell’inconoscibile. La soglia (una porta) che è una parola essa stessa. Di qui si parte e qui si resta. Condannati ad esperire ciascuno per sé la propria uscita, senza poterla condividere o esprimere. Mai.
I muratori lo sanno.
Un’ultima annotazione. Sentirete nel testo la porta detta “condannata”. Indagando il linguaggio settoriale dell’edilizia, si scopre che viene comunemente detta condannata una porta da chiudere, murare o abbattere. Tutti i muratori lo sanno. Io l’ho scoperto qui.
Buon ascolto.
38 – IL SERPENTE
I tre lettori di questo blog sonoro avranno forse notato nel commento precedente la ricorrenza o sottolineatura di alcuni termini (non casuale come tutte le ricorrenze): serratura;porta; serpente; flagello. Epifanie.
In fissa con gli infissi
Ci si potrebbero fare tesi di laurea: ‘Infissi nella poetica di Giorgio Caproni’; Finestre, porte, portoni… Andandoli a scovare nell’arco del mezzo secolo della sua produzione se ne trovano a bizzeffe, di ogni tipo. Quanti versi costellati di finestre, cancelli, porte e portoni, che si aprono o si chiudono spesso sonoramente; serrature quotidianamente praticate come liturgie umili dell’essere al mondo; ascensori, androni e stanze che si aprono o chiudono intorno al soggetto; con i loro rumori come sentenze… Porte, portoni, serrature, soglie: passi.
L’ultima porta
In questo passo, l’io narrante ci dice che sta varcando “l’ultima porta”. L’ultima porta di che cosa? Specifica: l’ultima porta della sua voce. Varcandola, si chiede se non sia stato proporio lo scatto di una serratura (dunque un suono secco, per analogia poetica associato allo scatto di un rettile) il serpente che spaventò Tamino.
…Tamino chi?
Tamino è il bonario bamboccione protagonista del Flauto Magico, operetta mozartiana che sappiamo aleggiare ogni tanto ne “Il Conte di Kevenhüller” (debuttò a Vienna nel 1791: un anno prima dell’AVVISO, quindi perfettamente contemporanea alla cornice allegorica dei fatti). Nella prima scena della giocosa operetta allegorica e pseudo esoterica vediamo Tamino (al suo ingresso) inseguito e tramortito da un serpente. Comincia così. La storia di quel personaggio.
La vita
Comincia così la storia di chiunque? L’esistenza ti attende al primo varco sotto un sasso come un serpente che scatta sonoramente: un giro di serratura ed è fatta, ci sei, sei dentro, sei fregato: ti tocca passare. La prima porta è già l’ultima porta. Inizio e fine coincidono come battenti speculari. Chi ne entra, ne esce. Inizio e fine si elidono (come tutti i rapporti speculari nella poesia di Caproni) e ne resta ben poco.
Verso la fine del Libretto
IL SERPENTE, LA VIPERA, LA VITA e IL FLAGELLO sono i quattro passi che chiudono la sezione detta IL LIBRETTO, ossia appunto il testo organico dell’operetta a brani intitolata “Il Conte di Kevenhüller”. Poi si passa ad altro.
Nei fatti “Il Conte di Kevenhüller” fu realmente l’ultima porta della voce di Giorgio Caproni: l’ultima sua opera strutturata. E la si avverte questa struttura, perfettamente congegnata: lo scatto di una serratura.
Siamo dentro.
37 – PERPLESSITA DELLE CURIE
Benvenuti sulla pagina che, aperta a caso da chi tentasse l’approccio da zero, gli farebbe richiudere il libro al pensiero:
“…la poesia non fa per me”
Il perché è presto detto. Non è immediata, non è facile, non gratifica al primo colpo, non appaga l’ego all’istante. E allora a che serve? Domanda ‘normale’ (!), anzi metro odierno di ogni giudizio di valore: …se non sei un surgelato o almeno un tonno in scatola, che pretese vuoi avere.
Si taglia con un grissino?
Altro boccone amaro per chi si avventurasse su questo passo a mani nude è l’assenza apparente di ‘parole difficili’ in rapporto alla effettiva difficoltà del testo. Cioè: nel complesso non si capisce un tubo, eppure conosco tutte le parole se le prendo una ad una. (Tranne forse “scisti” – tipologia di roccia, come “graniti” – termine settoriale desueto; ma l’esistenza di Wikipedia o Google ad un clic da qui rende nei fatti simili discorsi inutili).
Serratura
Effettivamente servono chiavi (di lettura) per quest’altra serratura. Come servono strategie un tantino più elaborare del cacciarsi baldanzosi nel bosco per prendere la Bestia. Qui Caproni si è divertito a confondere le acque, a sollevare fumo, a lasciare le nebbie un po’ più fitte. Perché?
Perché è divertente
Come tutte le forme di perversione divertono chi coscientemente ci gioca, così anche il verso altro non è che un gioco di parole (…se mai ve lo chiedesse un marziano) da cui l’umano trae inspiegabile beneficio psico-fisico dal suono e dal senso, godendo talvolta anche solo all’atto del decifrarle.
Fine dei preamboli, ecco il libretto di istruzioni per la decrittazione del testo.
“…Il suono lor m’è oscuro”
In linea di massima basterà scorrere i fatti e le leggende che ispirarono Caproni nella definizione della cornice allegorica dell’opera (li trovate riassunti e sistemati qui); quindi collegare le vicende del Gévaudan (regione rocciosa della Francia continentale sud-occidentale oggi detta Lozére) a quelle della nostra Lombardia, desumibili dall’Avviso storico del Conte di Kevenhüller edito nel Ducato di Milano.
Si scopre che nelle leggende di Francia arriva un bel Jaen Chastel a trucidare la Bestia e liberare le campagne dall’incubo. Grandeur d’oltralpe: minaccia, eroe vittorioso, capitalizzazione in positivo della storia con tanto di leggenda della Bestia che diventa il tema portante del marketing della comunicazione turistica della regione odierna, da dove Caproni ricevette una qualche cartolina postale con una didascalia che recitava più o meno così:
<<LA BESTIO: le terreur du pays>>
Trionfante leggenda francese contro inconcludente realtà italica: il documento milanese è autentico ma ovviamente non se ne conosce nessun seguito e nessun esito. E nessuna leggenda. (A parte un capolavoro letterario firmato Giorgio Caproni). Certo, Milano giustamente ha ben altro da offrire allo sportello del turista che la storia della Bestia…
Soluzione e riassunto del caso
Si contrappongono più o meno esplicitamente alcuni elementi allegorici a confronto. Ma il dato di fondo credo possa essere riassunto nel divario tra ansia di ‘soluzione’ (francese, letteraria, leggendaria, risolutiva, liberatoria) e smarrimento di qualsiasi traccia: l’esito tipicamente “nostro” (nel senso di tipicamente italico ma soprattutto di umanamente autentico), non solo sul piano della realtà storica ma anche sul piano della storia individuale di ciascun individuo.
Caproni sembra dire, anzi dice: “Un Jean / Chastel, qui / come può avere seme? […] Il Ducato non è / la Lozére. / Le Curie / sono perplesse”.
Questa perplessità porta domande. La principale è questa, in chiusura di verso: …i cinquanta zecchini di taglia sulla Bestia morta promessi dal Conte, potranno mai sostituire (togliere, eliminare per mettere altro al posto di quello) la passione (il patire il flagello inflitto dalla Bestia, dalla caccia; l’esperienza inflitta dal passo nella vita…). Forse, l’esperienza del flagello salva. Punto di domanda.
Per quanto l’esperienza della vita – certamente – uccida.