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62 – SMORZANDO
Così va il mondo. Tre giorno dopo, una pagina dopo… tutto è lontano. Il suono del mondo è smorzato. La MUSICA del libretto dissolve in uscita. L’operetta è finita. L’ultimo brano sfuma. Le ultime scintille alzate dal vento la notte, sulle creste montuose remote, le abbiamo intraviste. Qui finisce.
SMORZANDO è un modo musicale. L’orchestra suona ma scende di dinamica, in punta di piedi. Si allontana da sola dalla scena sonora. Resta fermo chi ascolta. Lei se ne va.
Allude a tutto un restante trambusto sonoro (rumore) che riguarda già altri: …altro da fare, da dire, inseguire…
Lontano si spara, si lotta, si ama… Si intuiscono altre generiche scene di caccia. Si intuiscono come? Al soffio del vento del tempo; il tempo soffia, ha un suo vento. Vento del tempo tra le foglie sonore (come nell’Infinito leopardiano).
Vento e tempo che porta.
Vento e tempo che soffia.
Vento e tempo che passa.
(…E quasi orma non lascia.)
Silenzio.
57 – L’OMBRA E IL CANTO
Siamo verso la fine. Tutto evapora o si cristallizza. Ci imbattiamo in uno dei passi apparentemente più enigmatici, in cui risuonano alcuni dei termini ricorrenti nei versi di Caproni fin dai primi tempi, in più di mezzo secolo di versi diversi (erba in rima ricca con serba, fresco, ombra, canto…).
Ai poeti in erba.
Ultimi versi dell’ultima opera: risuonano complessi è ovvio, chi li ha scritti, a fine vita, non è certo più un poeta in erba. Essere in erba: ecco una immagine immediatamente comprensibile che varrà più di mille note all’ascolto. Come sempre: la chiave per aprire questa porta ce l’avevamo tutti già in tasca.
Caccia persa.
Chiesa, fresco, erba, ombra, canto, mente. Nonostante i pochi termini elementari, l’effetto della composizione è altamente straniante, spiazzante per chiunque ad un primo approccio. La caccia è talmente persa ormai che quasi non ne resta la minima traccia (…non più solo della bestia: anche della caccia stessa). La vicenda o storia si è cancellata da sé e (come da COROLLARIO) anche di questa non resta che una testimonianza morta che vale quanto una fantasia.
Povera mente semplice.
I termini del linguaggio sono di un realismo elementare eppure l’effetto del linguaggio è (…onirico?) semplicemente quello della mente quando dorme. Non solo il sonno (o LA FRANA) della ragione (…ricordate il terrore?) limita la capacità di qualsiasi discorso, anche il suo naturale (ragionevole) limite: “non riesco”. Tutta l’Opera di Caproni è costellata di ammissioni di incapacità.
Ombra del dubbio.
Restano forse abbordabili giusto le parti elementari che per Caproni sono pochi termini esili dal peso specifico immenso, semi di un qualche residuo di senso: lo seminano, lo evocano, non lo rivelano; se ci provano lo perdono. Germogliano e crescono nell’ombra del dubbio e mai subito; bisogna aspettare e osservare che frutto danno, se e quando mai ne daranno.
Equivoco a margine.
Esiti come questo hanno spesso generato l’equivoco del Caproni “ermetico” (oggi scialba e mortifera etichetta scolastica), ma siamo evidentemente agli antipodi dal culto per le parole-rivelazione che deflagrano di significato e aprono ad un qualche senso iniziatico: siamo anzi alla polverizzazione del linguaggio che si affida per quel poco a pochi umili semi con la consapevolezza che tutti i discorsi di parola falliranno.
Entriamo dentro.
C’è un ennesimo ingresso. L’ingresso al luogo del culto: una sorta d’inerzia che accade all’esistenza in quanto tale. Accade a quella forma elementare di esistenza che è l’uomo o l’erba, che continuamente spunta, muore e spontaneamente si rigenera. I dati sensoriali sono il poco che temporaneamente resta di tutta l’esperienza. Il canto si perde nell’ombra o forse il canto è l’ombra stessa.
Il canto e l’ombra dell’erba.
Possiamo raccogliere un dato di fatto: l’erba produce (ha o fa) ombra e voce.
Risuona un verso lì, nel bel mezzo del tutto, di una semplicità disarmante:
C’era fresco.
Non è difficile. C’era fresco e dunque… E dunque ecco tutto. Resta, di assolutamente certo, questo. C’era fresco.