PER SEZIS ALL’OSPIZIO

La volta scorsa, tergiversando col cappello in mano, l’uomo scimmia ha fatto un gran fumo trascurando l’arrosto. Il testo, il contesto, la cornice… Riprende il discorso oggi al volo, quasi puntuale, una settimana dopo.

Ripassino.

Con Riconoscenza siamo – all’interno de Il Conte di Kevenhüller di Giogio Caproni – fuori dal corpus poematico principale (IL LIBRETTO, LA MUSICA), quello per intenderci ispirato al tema della caccia alla Bestia. Ne siamo usciti dopo Smorzando, tra echi lontani di spari sull’orchestra che sfumava in sordina; da quel passo in poi comincia un’altra musica, come l’autore sottolinea chiaramente titolando questo terzo tempo a caratteri cubitali ALTRE CADENZE.

Cadenza.

Tra queste cadenze altre, cadono – e insisto su questa caducità temporale per evidenti assonanze musicali, filosofiche ed esistenziali – le sezioni dette Galanterie e poi Versi Vacanti e tutto il resto del testo, fino alla fine. Terminata l'”Operetta a brani” il pubblico defluisce ciarlando fuori dalla sala; lascia il luogo della scena, sicché il fuori scena di prima diventa lo scenario di adesso: marginali vicende esistenziali diventano oggetto del testo.

Con i Versi Vacanti eravamo ormai all’aperto tra nebbie e dirupi: componimenti brevi, tutti più o meno andanti, mobili, vacillanti o persi, come i loro soggetti. E arriviamo ora a questi componimenti (dei quali Riconoscenza è il primo) racchiusi in un altro paragrafo intitolato Per Sezis all’Ospizio. Ennesima dedica caproniana. A chi?

Latterie, osterie… Ospizio.

Siamo ormai ai margini dell’azione, là dove si esiste o si resiste; certo, “…non è finita ancora”. Ma qui tutta l’epica del Kevenhüller, fatta di cacce furibonde, assalti a prede predatrici, cacciatori cacciati, selve, serpi, sassi e spari, lascia il campo ad un’altra epica minore, sempre ricorrente in Caproni, dal 1932 al 1990: quella minimale delle osterie, dei luoghi del rifugio (…qualcuno ricorda Gozzano?); rifugi temporanei alle notti fonde e ai temporali (esistenziali), alle nebbie, all’umido, alla sera (alla morte?); nascondigli “sociali” a loro volta marginali rispetto ai luoghi non giurisdizionali caproniani. Scatola nella scatola, cornice nella cornice, una mise en abîme. L’ultimo (definitivo) di questi antri (…androni) ospitali temporanei è appunto l’Ospizio. Scritto maiuscolo: definitivo. Lì sta il nostro Sezis.

Chi è Sezis?

Immagine patetica? Non in Caproni. Che il dedicatario di questa sezione fosse un vecchio, era chiaro: sta all’ospizio, bella. Sta finalmente sotto al disco rosso della sua stazione: è ben oltre l’ultimo borgo, è all’ultimo parcheggio mondano prima del loculo. Il tono è vagamente ironico. Sta dove si giunge in attesa del decorso completo di una letale forma di mutazione biologica che si innesca al concepimento, comunemente nota o volgarmente detta: vita.

Gli portano i fiori. Che cari.

Ma supponendo che Sezis sia qualcuno, non si coglie fino in fondo il senso della dedica e dunque dei testi che questa introduce. Sezis non è un nome proprio, bensì un termine che in argot (gergo) francofono, significa sé stesso. Puoi verificarlo su Google, scoprendo un accurato articolo (l’unico sul tema), di Rodolfo Zucco in 0,28 secondi di lunga attesa.

E grazie.

Che Caproni si rispecchiasse in Sezis non l’avrebbe mai dubitato nessuno. Ma che Sezis fosse un pronome e significasse proprio sé stesso in un gergo francofono, è un po’ meno intuitivo. Così una semplice prosopopea può giocarti uno dei suoi scherzi preferiti. Sezis non è qualcuno: Sezis è la personificazione dell’autore, uno specchio in grado di riflettere l’immagine di chiunque. Sezis è chi scrive, quindi anche chi legge.

Per sé stesso allo specchio.

Ancora una volta in Caproni l’autore (l’io lirico, uno dei tanti) è solo un pronome schermato da un gergo diverso, il nessuno nascosto dentro le parole, nella selva del testo. Bestia sfuggente a sé stessa, figurati a chi la cerca, infrattata com’è tra le felci fruscianti di un nome-schermo che fa da specchio. Un pronome. Un coso (un guidogozzano) che sta al posto del nome; nome che sta al posto del vivente. Che bizzarria. Che lezione. Roba da correre ad aggiornare il curriculum. Ma tutta l’esperienza (come quella della caccia o del flagello della Storia) in cosa si riassume infine: sparisce insieme a chi la vive; è ancora una volta quella “…testimonianza morta, che vale quanto una fantasia”.

Tematica fondamentale in Caproni, molto ricorrente; qui è detta magistralmente così:
“Nella memoria / degli altri, resterà una storia / – bianca – mai esistita”.

Poetica elementare.

Sicché il soggetto è infelice (desdichado), di umor (…humor?) nero, al punto tale che anche il bicchiere (vitale icona caproniana di sempre) gli risulta letale. Al punto tale che, morto il (povero) Diavolo, rimane – solitario – il male. Che iattura. Ridiamoci su, con una sciocca battuta. Magari banale. A denti stretti. A sfondo sessuale.

Buon ascolto, senza il quale questo mio finale apparirà un vaniloquio.

CURRICULUM, O: IN UMOR NERO

EL DESDICHADO

IATTURA (I, II, III)

Un Commento

  1. Giovanni Succi

    L’ha ribloggato su Appunti e lineee ha commentato:

    Pubblicata ieri la nuova puntata del mio audioblog caproni.org.
    Siamo verso l’epilogo. Si resiste, ma “…non è finita ancora”. Per ora Sezis è all’Ospizio. Ammesso che la fine non sia che l’inizio.

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