Categoria: Il Conte di Kevenhüller (1979 – 1986)

Piccoli suicidi e rinvii.

Un anno e due mesi di silenzio un suicidio? Non del tutto. Ecco un nuovo inizio, ad esempio. Se il vento ti strappa via la tenda, la tentazione forte è che anche l’anima (…l’anima? …ma che è?) se la riprenda.

E invece poi ti riprendi, ti rialzi ed erigi un casa. Un bell’edificio solido a riparo del tuo essere nel mondo. Ma l’anima (…l’anima? …ma che è?) vorrebbe l’altezza. Il mistico tenta.

Ma se non sfonda il soffitto non arriva al cielo; resta un asceta che più di tanto non sale. Si dovrà accontentare. Pace.

Verso il gran finale. Comunque sia il soffitto, comunque sia la volta, architettonica o naturale, non potendola sfondare, si rimanda alla prossima (volta).

Ce la faranno i nostri eroi?
Sul prossimo numero, sicuramente, la risposta.

 

Il Ponte.

Poi una sera mi son rotto i coglioni. Spento Netflix, notizie, opinioni… Eccomi, deambulo a vuoto nella penombra. Affogo o respiro? Afferro il mattone riposto sul piano, mi ci cade lo sguardo, apro a caso l’OPERA IN VERSI del mio amico Giorgio, massì. Sentire un amico fa bene ogni tanto. Apro a caso e mi escono questi:

ALLA PATRIA

Laida e meschina italietta.
Apetta quello che ti aspetta.
Laida e furbastra italietta.

AHIMÈ

Fra le disgrazie tante
che mi son capitate, 
ahi quella d’esser nato
nella << terra di Dante >>.

La sezione delle rime ANARCHICHE, all’interno di “Res amissa”, la raccolta che uscì postuma, dopo il 1990, finiva così.

Pensierini.

Stessa raccolta e sezione dalla quale – tra parentesi – fu estrapolato il famigerato tema d’esame della Maturità 2017, quando il nostro balzò agli onori delle cronache raccogliendo una buona dose di imbecillità tricolore: “…ma chi cazzo è questo” fu il commento quasi unanime della nazione.

Svolgimento.

Ruttanti e scoreggianti, un paio di neuroni residui che tengo nascosti, se ne escono dal retrobottega fetido della mia mente e occuparono due tavoli all’osteria Le Vecchie Tempie, proprio qui all’angolo della mia testa, rimbalzandosi dei botta e risposta.

Terra di Dante.

Uno di quei due neuroni, il più brillante, dandosi delle arie, ripensava – ma pensa un po’ – proprio a Dante e a certe mie vicissitudini recenti.

Sei tu quello là – mi dice ruttando – che se ne va in giro a spacciare letture di Dante, di roba del Sommo che nessuno si fila? Coglione sfigato che sei. Beccati ‘sta scena di un mesetto fa, te la ricordi?

E mi rispedisce in un ufficio comunale qui delle mie parti (più precisamente in Italia), dove un Assessore alla Cultura, gentile e solerte, volenteroso ma disarmato di fronte all’evidenza dei fatti, mi confessa candidamente che no: Dante non interessa, perché Dante… Come dire, è cultura.

Rivedo me, anch’io un po’ abbacchiato, mentre annuisco all’assessore, ed effettivamente non posso che confermare. AHIMÈ. Sì, in effetti Dante, sarebbe, tipo cultura. Ahimè, sì.

Ma non essendo cultura come un vino o un agnolotto, Lei capisce bene, che in quanto tale, non ha spazio in bilancio. Non me lo passano.

Capisco, ci mancherebbe altro.

Coglione.

Poi attacca l’altro neurone e ruttando mi da del coglione, per una serie di motivi che non sto ad elencare, alcuni anche evidenti… E poi insiste a girare coltelli nelle miei piaghe e, tra questi, ce n’è uno lungo a lame frastagliate che, più o meno, fa così.

Stronzone.

– Minchia quello della cultura! Dovresti vergognarti anche solo a nominarla. Tu lo sai, lo sai che hai mollato il blog su Caproni a gennaio 2018, promettendo dell’altro che poi non hai più scritto un cazzo, te lo lo ricordi, sì? Vergogna. Lo sai che tal Zanotti Emiliano ti sgancia un euro al mese (per un cazzo!) e che i Fantastici Quattro Lettori non san manco più se esisti? Ormai ti danno tutti per bollito su Netflix o a ravanare Metal anni Ottanta su Youtube. Buonista di merda, vergogna.

Buffone.

– Vero! Ma non solo. Scommeto – fa l’altro, scoreggiando – che non sai manco più dov’eri rimasto su quel cazzo di blog di merda. Vediamo un po’ come stai messo a memoria, dai, spara qualche verso del Conte di come-cazzo-si-chiama, dai, che vogliamo ridere. Spara! Spara! SPARA!

Muori.

Muori disse il neurone. E io, imbabanato come un facocero scrollato dal letargo, estraggo in piena notte a caso un verso, vediamo un po’… LA FRANA. Com’era più? Così.

No, il Conte non stravedeva.
Anzi, aveva avuto fiuto, il Conte.

Giorno: il 14 luglio.
[…]
Sul ponte,
pugnalato e in tremore.

BOOM!!!

La frana, il ponte… Ti dice niente?

Il neurone più sveglio (non so quale dei due) mi esplode in testa al suono di quella data, gli ricorda qualcosa. Non il 14 luglio, ma il 14 agosto, cazzo: il Conte si era sbagliato sì, ma di pochino.

– Che cazzo stai dicendo Joh!? – Parla ormai come in un serial televisivo.
– Genova, 14 agosto, poco più di un mese fa…
– Oh cazzo… Il ponte, pugnalato e in tremore
– Com’era più?! La stiamo perdendo! Via! via! via! Boom!!! Figli di puttana.

– OK Joh, ma stai calmo.

Ecco LA FRANA, apparve proprio ad agosto (2011) su questo blog (aprila in un’altra finestra). Che ironia.

– Oh com’era diverso il nostro stile; oh come anche noi – come tutto – siamo andati in vacca.
– Vacca tua madre. Rimettila qui di seguito, tirchio. E mettici l’audio e pure il testo. E poi basta, ‘sto post di merda chiudilo qui. Per gente sveglia come noi non c’è da aggiungere altro.

LA FRANA

No, il Conte non stravedeva.
Anzi, aveva avuto fiuto, il Conte.

Giorno: il 14 luglio.
Anno: quello tra Il Flauto Magico,
a Vienna, e, a Parigi, il Terrore.

In lui, non il minimo errore
di calcolo.

Anche se non esisteva,
la Bestia c’era.

Esisteva,

e premeva.

Nel cuore.

Tra gli alberi.

Sul ponte,
pugnalato e in tremore.

Uscito dalla mia tana,
guardavo – nel linciaggio
della mente – il paesaggio.

Ai miei occhi, una frana.

La frana d’un’alluvione.

La frana della ragione.

 

[Le sottolineature sono mie]

Bucio de cuore.

E invece io aggiungo. Perché l’altro neurone non era poi così convinto. Va bhè dai, coincidenze, il caso, una dose di culo (cioè sfiga a dire il vero..). Mi vorrai mica dire preveggenza?

Signori. Coincidenza o preveggenza, resta il fatto. Anche un orologio guasto segna l’ora esatta due volte al giorno, certo.
– Cazzo c’entra, ruttò il neurone.

Resta il testo.
Resta nel tempo.

Non il minimo errore di calcolo, …ecco magari no, diciamo che s’è sbagliato di un mesetto.
– Ma che cazzo sarà successo mai quel 14 di luglio?

Tutto.

La rivoluzione.

– Ma l’anno? L’anno non era mica quello, non è lo stesso.
Come no: l’anno, un anno o l’altro, …è esattamente lo stesso!

L’anno è quello. È sempre quello. Non siamo praticamente sempre tra il faluto magico di un pifferaio di turno e il terrore del giorno? Non siamo sempre alla Rivoluzione?

E dove siamo, se non a Parigi? La capitale del più elevato ed illuminante pensiero filosofico occidentale, che rischiarò le tenebre del Medioevo, per produrne, giustamente, gradualmente, inesorabilmente, un altro. Ma tutto nuovo.

Parigi.

Cioè ovunque. “In ogni dove”. (Così si apriva l’Operetta, con IL FONDALE DELLA STORIA – Un fondale fittizio, certo, di cartapesta. Come la nostra, appunto, come questa, come quella, come TUTTA la Storia).

E dopo il disastro usciamo dalla tana, la mente linciata, sgraniamo gli occhi alla rovina.

Il diluvio è sempre.

Genova, 14 agosto 2018.

La ragione frana sempre, ovunque, continuamente. I ponti si fanno, i ponti cadono (…o almeno, quelli che facciamo noi, può essere). E la Bestia c’era. L’han vista tutti, infatti nessuno sa com’è fatta.

Nei cavi mancanti, nelle foreste di calcestruzzi, in tutte quelle inutili preventive e postume perizie, parole, perizie, parole, perizie, parole, perizie, parole, perizie, parole,  perizie, parole,  perizie, parole,  perizie, parole,  perizie, parole,  perizie, parole,  perizie, parole,  perizie, parole,  perizie, parole,  perizie, parole,  perizie, parole,  perizie, la bestia, parole,  perizie, parole,  perizie, parole,  perizie, parole,  perizie, parole,  perizie, parole,  perizie, parole,  perizie, parole,  perizie, parole,  perizie, parole.

La Bestia c’era, esisteva e premeva. Era nel testo: era nel CUORE. Parola sacra alla patria.

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Genova è nel cuore. Adesso. Prima era più verso la milza. Ma adesso è nel cuore, lo dice la maglietta. Ma non solo: abbondanza e riparazione. Tutto a costo zero, quindi spara dei gran cuoricini, zio.

Eccoli, fin che vuoi, gli italici cuori, che ci riparano il ponte, ci ri-parano il culo e siamo a posto: che carini, che grandi, schierati come tanti palloncini in un cielo gonfio di balle colorate a formare un unico grande cazzo di cuore di merda. Così parlò il neurone scoreggia, e conquistò la mia stima. Ancora una volta: IL CUORE, geniale.

Evacuare di cuore.

Ci avevano messo il cuore nel farlo, ‘sto ponte? Magari un po’ meno, magari un po’ a cazzo, ma era tutto fatto col cuore, il nostro cuore pulsante di italiani di cuore, nel cuore del boom economico. E se manca un cavetto, che sarà mai, non ce l’hai un po’ cuore? Ma adesso. Adesso che c’è da rifarlo, ‘sto ponte, vogliamo rifarlo davvero col cuore? Eccome. Non la vedi la maglietta? Se lo dice la maglietta, fidati, è fatta.

Vomito un attimo e sono subito da voi.

Ma se ghe penso.

Caso o preveggenza, il fatto – così come il verso di Caproni, anzi qui il verso è il vero fatto – il fatto resta. E resta per sempre, come il crollo del ponte Morandi. Nella fattispecie a Genova. Più precisamente, in ogni dove.

La Bestia era (è) (sarà) “…sul ponte, / pugnalato e in tremore”.

Ed ecco Genova, signore e signori. Usciamo dalla tana e guardiamola. La Genova di Caproni. Pugnalata e in tremore. Fosse retorica sarebbe bello, ma AHIMÈ si tratta di cronaca. Cronaca Italiana.

E pensa che culo Giorgio mio, non averla vista, almeno tu, per un soffio; che ti sei perso l’ultimo trentennio. (Chissà le meraviglie che ci perderemo noi). Cambiato qualcosa? Certo, cambiato identicamente tutto. Rivoluzionato il mondo. Non ti dico l’Italia, poi. Infatti è sempre diversamente uguale.

Ti accendo un telegiornale? Anche no? Ok.

Canta Morandi.

Pensa un po’ che davvero, anche sul Ponte Morandi la Bestia era già lì.

In attesa. Aspettava. Lo si sapeva. L’avevano annusata, avvistata… L’avevano intravista, nel degrado della superficie: …ma chi avrebbe mai potuto immaginare – con tutto il cuore – che li degrado fosse anche dentro (sic) e fosse vero (sic), producesse effetti (sic). I cacciatori provetti avevano sparato qualche colpo a zero, un po’ qua un po’ là, come si fa da noi, un po’ in alto, un po’ a caso, un po’ a culo, con tutto il cuore.

Ma poi a un certo punto era pronta la pasta.

E così niente, alla fine la Bestia ci ha stanati Lei.

Una mossetta, una cazzatella da Natura leopardiana nella Ginestra, anche un po’ stronza. (La Natura stronza immaginata da un gobbo, ovvio, mica qulla ridente nostra che sorride a noi che siamo sani). Vabbè dai, siam gente solare. Ora ci mettiamo un’alta bella botta di cuore e toreneremo a sorridere.

Chi è di scena?

Bene. Siamo a prima dei sorrisi distensivi e rassicuranti, giusto? Allora. Il copione dice che adesso è il tempo di un bel po’ di SCONCERTO (ma pensa, ci eravamo lasciati proprio con questo). E arriveranno, vedrai Giorgio, “…i restauratori / […] Forti. / Alti. / Tutti più alti del vero”). Ci avevi preso anche in questo.

[…]
La Reggia, il Tribunale, il Duomo…
Com’erano, così paurosamente
– e in un sol lampo – spariti?

Ops,  pure il ponte? Oh cribbio.
Comunque è pronto in tavola.

La nostra cultura è buona.

Noi facciamo i ponti belli e poi ce li crollano gli altri. La vulgata è pressapoco questa. Così a caldo, dal cuore. Ma la cultura, la nostra, è buona. L’orgoglio nazionale mai così alto.

Perché siamo buoni, essere buoni è la nostra cultura. Ma mica come Dante e tutti gli intellettuali del cazzo – ruttò il neurone. No. Buoni come il vino, l’agnolotto… Quelli sì che li facciamo bene e (salvo quando allungammo giusto un po’ col metanolo), quelli, il vino, la pizza, la parmigiana con le melanzane, ci vengono benissimo e non ci sono mai crollati addosso. Vai tranquillo.

– Prova a farla senza le melanzane ma solo col cuore la parmigiana, e poi vedi.
– Ideona – scorreggiò il neurone – che il nuovo ponte lo facciamo fare allo Chef.

Fine.

E alla fine, come vedi, anche io la faccio franca: di tutti i post promessi a inizio anno, eccone un altro e con questo fanno due. Due bei post targati 2018 li ho cacati: bella. A posto così. Questo è pure bello lungo, fattelo bastare. Zanotti sgancia l’euro e fatteli bastare. Fantastici Quattro, sucate. Io vi lascio di tutto cuore con la fine. Cioè l’inizio. Come sempre la Bestia è un loop: coincidono.

ALLA PATRIA

Laida e meschina italietta.
Apetta quello che ti aspetta.
Laida e furbastra italietta.

AHIMÈ

Fra le disgrazie tante
che mi son capitate, 
ahi quella d’esser nato
nella << terra di Dante >>.

 

il cosmo "rima" in Giorgio Caproni.

105° post compleanno.

7 gennaio 2018. Buon compleanno Giorgio, con questo fanno 105. Un pensierino, ci sta, un bel post. Manco da molto, lo so. Emiliano Zanotti mi versa 1€ al mese con bonifico automatico a sostegno del blog, e io non ho più scritto una riga qui da giugno. Emiliano: ti devo 6,00€

Ma pensa che storia, questo (me lo certifica WordPress con estrema esattezza) è proprio il 105° post, pari al numero dei tuoi anni. Il numero dei tuoi anni è pari al numero dei miei inutili commenti, dei miei clic sul tasto “pubblica”. Manco un cabalista svizzero avrebbe mai beccato un bingo come questo. Pensa che jolly, che coincidenza.

No, non si vince niente.

Ma un paio di letture eccole.

Sconcerto.

I restauratori, quelli tutti più alti del vero, arrivano e non trovano niente a parte il vuoto. La reggia, i tribunali, il duomo (potere, raziocinio, religione), dove vanno a finire dopo? Nel dirupo. Nel vallone. Con tutte le opere buone, i buoni propositi, le promesse elettorali, i fioretti a Padre Pio, i discorsi di fine anno a reti unite, le convergenze parallele, gli election day (giuro, ormai qui si chiama così, ci fa sentire meno ignoranti, suppongo – ma tutto sommato è positivo, così la cialtroneria traspare chiara fin dal titolo) e tutti i compleanni del cappellaio matto.

Pensatine.

Dopo averle pensate tutte…
Per le spicce.
L’ultima mia proposta è questa.

Se volete trovarvi, perdetevi nella foresta.

Fantastica sintesi. E qui tu parafrasi l’incipit della Commedia, ci arriva pure un liceale. Ma sai che c’è: …da alcuni altri versi della raccolta, con ricorrenze di rime esatte e inconfondibili, si risale alle Rime Petrose di Dante (…ecco dove le avevo già orecchiate!); parallelismi che non sono coincidenze.

E le Rime Petrose, a parte i disadattati come me, non le conosce nessuno. E a parte te, Montale, Eliot e pochi altri sprovveduti, le Petrose non se le fila proprio nessuno, manco la Società Dantesca. Pensa, anche in questi gironi c’è la serie B.

Così ho intrapreso un altro viaggio, ritrovandomi puntualmente, magnificamente perso. Ma di questo (se mi riprendo – e mi riprenderò, prometto) ti racconterò presto. Ok. Manco da troppo tempo.

Promesso.

ARIETTA TENORILE.

Ebbene sì, a piccoli passi, in ritardo di anni, si procede in dirittura della fine.
Parlo del testo naturalmente, non sia mai.

“Io non vedo più niente”.

Testo che parla chiaro; per questo è oscuro. Io non vedo più niente. Non significa che non ci sia altro. Significa che io non lo vedo. L’io di passaggio, un altro – probabilmente l’ultimo transito d’un ennesimo transfugo vede scempio e malvagità, ingiustizia (nequizia) nei tempi e nei luoghi del mondo, nella storia (…i vili mercati d’anime, le sparatorie, come detto nella Piccola Cordigliera che apriva questa serie di fuggitivi diversi). Non più altro. Il tono del titolo tenta di stemperare l’amarezza dell’assunto.

“…Ah che tempi signora mia, che tempi!” Ah sì. Praticamente i tempi che a turno vivono tutti i viventi: esistenti, esistiti ed esisturi, almeno una volta nella vita, procedendo questa per chiunque nello stesso modo, se non erro. Quel che leniva il rigore delle tempeste non è più o non è più percepito: non più l’accoglienza allegra dell’osteria, dell’acqua-fuoco in bottiglia, l’umanità calda e leggera. L’erba verde è ormai del tutto nera.

[…] Era buio. Era sera.

Amarezza. Rimpianto, certo. Per voce tenorile (come prescrive una nota al testo), ironicamente artefatti in arietta. Dove Gozzano avrebbe ordito un dagherrotipo o una bella stampa ottocentesca, in Caproni la cornice è spesso sonora; il valore è identico.

…Dai che adesso canta!

No, nella mia esecuzione vocale non ho dato di petto e non ho composto velleitarie arie dilettose, per associare a quella di Giorgio Caproni la creatività di un ego smanioso di riflesso. Un altro al posto mio l’avrebbe fatto. Bravo. E invece guarda un po’ questo bastian contrario: la sua voce cerca sempre di sparire dietro il testo (risuonando del contesto). In questo progetto, il progetto era questo.

Capodanno in alleg(o)ria.

Aspettando la mezzanotte.

Ricapitolando brevemente, è ormai chiaro che in queste Altre Cadenze la caccia alla Bestia e il Conte non c’entrano più niente. Stessi accordi – stessi ritmi e immagini ricorrenti – modulati in canzoni diverse.

Ricetta frizzante per il Gran Cenone.

Ecco un VECCHIO ZINGARO. Niente di bucolico e romantico. Un transfugo come gli altri: in fuga (o di passaggio, volente o no) verso altri luoghi o luoghi altri. Ma tu guarda come questa condizione assomigli a quella di chiunque. Tu vaneggi, mio caro: io sono qui, ben piantato, fermo, saldo e non me ne vado. Non te ne vai, adesso; certo. Tra quanto te andrai? Moltissssssimo tempo. Potrai opporti?

E poi tutti il trenino!

Ecce homo. L’uomo chi. L’autore? L’essere umano. L’essere. Il chiunque? Il cosoconduegambe, il guidogozzano? Il lettore? Quindi tu, non io. No certo! Io. Alcuni io. Quasi mai io. Un vecchio girovago, ad esempio. Niente di romantico e bucolico. Un cinghiale, che ha scelto.

Attenti ai botti: impugnateli bene!

Seduto su un pietrone (saldissimamente piantato al suolo), in prossimità di un ponte: posti da cinghiali, appunto. E infatti ecco un fiume, una pietraia, un monte; il cono d’ombra che proietta a valle (“…nella grande ombra del monte”, la cui parete speculare sarà “la trita ombra del niente” sul finale). Erba e ombra. Ancora questa l’ambivalenza cardinale ricorrente in tutta l’opera, soprattutto nella seconda parte. Erba che da verde si fa nera, col semplice volgere del pianeta. Ma pensiamo ad altro.

Alleg(o)ria, è Capodanno!

Il vecchio cinghiale si è eclissato, proprio come quell’altro sulla Piccola Cordigliera… Questo ha mosso però un passo ancor più radicale; dopo l’ultimo carrozzone, si è alzato e di sua sponte è sparito verso il monte, nell’ombra. Non si sa dove.

Osservo graficamente la lunga pausa sulla carta: viene riprodotta dalla rappresentazione digitale dei picchi del file audio, come una piana tra due alture. Poco prima del finale: dal minuto 0:56 al minuto 1:00 circa.

Meo amigo Charlie Brown.

L’equivalente del bianco sul foglio. Contemplo la landa desolata e piatta del silenzio-nulla-ombra, compresa tra due picchi di suono e un po’ me ne compiaccio. Tacere è il culmine della mia dizione. Il punto in cui andandomene, resto.

Che sia lì, il vecchio zingaro?

Buon inizio e fine.

Ripresa a mille.

La data dell’ultimo post su questo blog risale al 15 maggio scorso: sei mesi fa.
Mio figlio Pietro ha sei mesi. Che ci sia un nesso?

Effettivamente mi è sempre parso esprimere a modo suo qualcosa in contrario ogni qual volta che mi sentisse picchiettare sui tasti per più di un minuto d’orologio. Probabilmente lo considera un evento contro natura. Probabilmente lo è.

Fatto sta che le fasi del sonno dei neonati tendono ad assestarsi dopo i sei mesi. Ed eccomi qui a farla in barba al piccolo.

Dove eravamo rimasti?

Eravamo rimasti a quota mille, in una “…località negletta dell’Alta Val Trebbia”; sfiniti dalla caccia  ci eravamo rifugiati lì. Al freddo, a battere i denti, ma felici. Qui “in questo acciaio” dove “l’ombra / non tenta nemmeno i festanti”. Qui “All’osteria” conl’antico mezzo litro”. Allegorie ormai familiari.

Uno dei componimenti più citati e conosciuti dell’ultimo Caproni, apparentemente uno dei più semplici; in realtà la sua cristallina complessità richiederebbe un commento ben più approfondito di quanto mio figlio non  mi permetta di questi tempi… Ma crescerà, e LA PICCOLA CORDIGLIERA, O: I TRANSFUGHI (il componimento riporta in seconda opzione il titolo dell’intera sezione) non scompariranno mai: se ne staranno lì per sempre, sulla pagina o in un file, ad attendere un momento o un commento migliore. Che potrebbe anche non arrivare mai.

La complessità di questo testo nella sua semplicità apparente è tale che riporta stratificati tutti i sedimenti di una vita poetica, come una parete a strisce variegate di roccia (…“di faglia / in faglia […] già di lavagna”). Quasi un testamento poetico, il sunto di una vita in versi. Più che un repertorio o una raccolta di luoghi caproniani, un luogo in sé (ammesso esista la categoria del dove).

Ben tornati.
Buon ascolto.

P.S. …Se il plugin vi assite, da questo link potrete ascoltare una lettura e commento di questo testo da parte del compianto prof. Croce dell’Università di Genova andata in onda su Radio Rai nel 2009.

P.P.S. Avrò il piacere e l’onore di presentare dal vivo questo ed altri percorsi di caccia e di fuga domenica 23 novembre 2014,  a Bra (CN) all’interno del Festival CHIAMATA ALLE ARTI.
Dalle 17:30 con quattro chiacchiere sul tema, in una intervista a cura di Andrea Dellapiana. In serata, dalle 21:30 con “IL FRUSCIO DELLA BESTIA IN FUGA” da “Il Conte di Kevenhüller” di Giorgio Caproni, esecuzione per sola voce a cura del sottoscritto.

www.switchonfuture.it/chiamataallearti/

I TRANSFUGHI

Personaggi in fuga, in transito. Passano. Scappano? Trapassano. Personaggi da qualche altra parte, in qualche altro dove (ammesso esista un dove). Fughe perenni, future e passate. Come gli umani: sempre in transito fugace.

RIFIUTO DELL’INVITATO.

Il primo di questi cinque testi della sezione I Transfughi, dà voce direttamente a Lui in Persona, l’Illustrissimo, il presunto o sedicente o certo Masterchef dell’Universo, il più corteggiato e ambìto degli ospiti, il concorrente Numero Uno Assoluto dei giochi a premi e quiz di tutti i tempi.

Quello che chiunque vorrebbe al proprio fianco anche solo per un ruba-mazzetto. Il complice/compagno/alleato perfetto. Il testo, ironicamente dedicato a Giorgio Devoto (…ennesimo io-giorgio degli innumerevoli apparsi?), ci riporta finalmente e fedelmente niente di meno che: la voce di Dio. In persona. Esiste più perfetta prosopopea? Invitato e strenuamente pregato, finalmente Egli risponde.

Che disdetta.

Ma accidenti: declina, non può proprio restare. Non gioca più, se ne va. Deve avere affari più importanti altrove. Però è gentile e ci spiega il perché e il percome e ci rassicura: meglio così.

E dire che sarebbe stato decisivo, decisamente decisivo. Un vero peccato. Questo cerimonioso Signore ama farsi pregare, malgrado ci preghi di non farlo, pare. Proviamo a insistere… Macché, niente da fare. Transfugo chissà dove.

(Ma “…il dove / non esiste?”. Bello perdersi in questi VERSI CONTROVERSI).

Tom Waits.

I cineasti di piglio alternativo gli affibiano per lo più la parte scontata e didascalica del satanasso (e lui, bontà sua, la fa) ma per me Dominiddio, se proprio dovessi dargli un ghigno, ha il muso e il piglio di mr. Waits.

Mio idolo assoluto. Esiste per certo, mi è apparso una volta. Dove? A Milano, Teatro degli Arcimboldi, luglio 2008. Avevo pagato caro il biglietto e ridevo come un bambino. Ma lasciamo stare. Un qualche invitato per sostituire Dio non poteva mancare. Chi meglio di lui. Non serve manco l’invito, basta il codice di YouTube.

Fuori per affari.

Lui (intendo Lui il Maiuscolissimo) c’è, per carità, ma è che ha da fare; è in fuga per qualche motivo, altrove. Un transfugo, appunto.

Mr. Waits – da buon anglosassone – lo dà in giro per affari. Caproni non si sbilancia: ci dice che gioca, beve, si annoia; cosa abbia di così impellente e irrinunciabile da fare non è dato saperlo (essendo italico direi le ferie); ci dice però che ha uno suo staffiere… Deve essere un tipo che viaggia all’antica, se la passa bene. Caproni ce lo mostra (ma guarda un po’!) indovina dove.

Sulla porta.

La porta che porta dove si è già e che (intransitiva) resta biancomurata? Proprio quella. Quanti personaggi caproniani stanno sulla porta, al portone, nell’androne, nel protiro, sull’uscio, nel corridoio dello scompartimento, ai vetri, alla finestra – che poi è una porta solo un po’ più alta.

Sono (siamo) tutti affacciati ad un riquadro-soglia spazio-temporale. Tutti lì lì per andare. Ma che Caproni sta in fissa con gli infissi è una battuta da quattro soldi che ho già speso, non la ripeterò.

Se mai dovessi ripeterla, prendetela alla leggera: è solo un gioco. Fate come dice Dio: state allegri.

Ciao cari.

Qui la partitura è talmente chiara che basta ascoltarla (per avere la certezza di non saperla comprendere affatto) e risuona nella mente un certo sparo: …quello che all’inizio dell’operetta a brani, con un colpo, fredda il direttore: “l’orchestra dovrà far senza”. Ed ecco qui – quasi a fine corsa – questo consiglio che suona imperativo, come la famigerata offerta che non puoi rifiutare. Lo riporto qui sotto, papale papale, per chiarezza cubitale.

“FATE / SENZA DI ME.”

(Parola di Dio).

Addio.

 

 

 

 

PER SEZIS ALL’OSPIZIO

La volta scorsa, tergiversando col cappello in mano, l’uomo scimmia ha fatto un gran fumo trascurando l’arrosto. Il testo, il contesto, la cornice… Riprende il discorso oggi al volo, quasi puntuale, una settimana dopo.

Ripassino.

Con Riconoscenza siamo – all’interno de Il Conte di Kevenhüller di Giogio Caproni – fuori dal corpus poematico principale (IL LIBRETTO, LA MUSICA), quello per intenderci ispirato al tema della caccia alla Bestia. Ne siamo usciti dopo Smorzando, tra echi lontani di spari sull’orchestra che sfumava in sordina; da quel passo in poi comincia un’altra musica, come l’autore sottolinea chiaramente titolando questo terzo tempo a caratteri cubitali ALTRE CADENZE.

Cadenza.

Tra queste cadenze altre, cadono – e insisto su questa caducità temporale per evidenti assonanze musicali, filosofiche ed esistenziali – le sezioni dette Galanterie e poi Versi Vacanti e tutto il resto del testo, fino alla fine. Terminata l'”Operetta a brani” il pubblico defluisce ciarlando fuori dalla sala; lascia il luogo della scena, sicché il fuori scena di prima diventa lo scenario di adesso: marginali vicende esistenziali diventano oggetto del testo.

Con i Versi Vacanti eravamo ormai all’aperto tra nebbie e dirupi: componimenti brevi, tutti più o meno andanti, mobili, vacillanti o persi, come i loro soggetti. E arriviamo ora a questi componimenti (dei quali Riconoscenza è il primo) racchiusi in un altro paragrafo intitolato Per Sezis all’Ospizio. Ennesima dedica caproniana. A chi?

Latterie, osterie… Ospizio.

Siamo ormai ai margini dell’azione, là dove si esiste o si resiste; certo, “…non è finita ancora”. Ma qui tutta l’epica del Kevenhüller, fatta di cacce furibonde, assalti a prede predatrici, cacciatori cacciati, selve, serpi, sassi e spari, lascia il campo ad un’altra epica minore, sempre ricorrente in Caproni, dal 1932 al 1990: quella minimale delle osterie, dei luoghi del rifugio (…qualcuno ricorda Gozzano?); rifugi temporanei alle notti fonde e ai temporali (esistenziali), alle nebbie, all’umido, alla sera (alla morte?); nascondigli “sociali” a loro volta marginali rispetto ai luoghi non giurisdizionali caproniani. Scatola nella scatola, cornice nella cornice, una mise en abîme. L’ultimo (definitivo) di questi antri (…androni) ospitali temporanei è appunto l’Ospizio. Scritto maiuscolo: definitivo. Lì sta il nostro Sezis.

Chi è Sezis?

Immagine patetica? Non in Caproni. Che il dedicatario di questa sezione fosse un vecchio, era chiaro: sta all’ospizio, bella. Sta finalmente sotto al disco rosso della sua stazione: è ben oltre l’ultimo borgo, è all’ultimo parcheggio mondano prima del loculo. Il tono è vagamente ironico. Sta dove si giunge in attesa del decorso completo di una letale forma di mutazione biologica che si innesca al concepimento, comunemente nota o volgarmente detta: vita.

Gli portano i fiori. Che cari.

Ma supponendo che Sezis sia qualcuno, non si coglie fino in fondo il senso della dedica e dunque dei testi che questa introduce. Sezis non è un nome proprio, bensì un termine che in argot (gergo) francofono, significa sé stesso. Puoi verificarlo su Google, scoprendo un accurato articolo (l’unico sul tema), di Rodolfo Zucco in 0,28 secondi di lunga attesa.

E grazie.

Che Caproni si rispecchiasse in Sezis non l’avrebbe mai dubitato nessuno. Ma che Sezis fosse un pronome e significasse proprio sé stesso in un gergo francofono, è un po’ meno intuitivo. Così una semplice prosopopea può giocarti uno dei suoi scherzi preferiti. Sezis non è qualcuno: Sezis è la personificazione dell’autore, uno specchio in grado di riflettere l’immagine di chiunque. Sezis è chi scrive, quindi anche chi legge.

Per sé stesso allo specchio.

Ancora una volta in Caproni l’autore (l’io lirico, uno dei tanti) è solo un pronome schermato da un gergo diverso, il nessuno nascosto dentro le parole, nella selva del testo. Bestia sfuggente a sé stessa, figurati a chi la cerca, infrattata com’è tra le felci fruscianti di un nome-schermo che fa da specchio. Un pronome. Un coso (un guidogozzano) che sta al posto del nome; nome che sta al posto del vivente. Che bizzarria. Che lezione. Roba da correre ad aggiornare il curriculum. Ma tutta l’esperienza (come quella della caccia o del flagello della Storia) in cosa si riassume infine: sparisce insieme a chi la vive; è ancora una volta quella “…testimonianza morta, che vale quanto una fantasia”.

Tematica fondamentale in Caproni, molto ricorrente; qui è detta magistralmente così:
“Nella memoria / degli altri, resterà una storia / – bianca – mai esistita”.

Poetica elementare.

Sicché il soggetto è infelice (desdichado), di umor (…humor?) nero, al punto tale che anche il bicchiere (vitale icona caproniana di sempre) gli risulta letale. Al punto tale che, morto il (povero) Diavolo, rimane – solitario – il male. Che iattura. Ridiamoci su, con una sciocca battuta. Magari banale. A denti stretti. A sfondo sessuale.

Buon ascolto, senza il quale questo mio finale apparirà un vaniloquio.

CURRICULUM, O: IN UMOR NERO

EL DESDICHADO

IATTURA (I, II, III)

RICONOSCENZA

Tenetevi forte, ho fatto due conti e sono cifre grosse per un blog così drammaticamente privo degli ingredienti di successo dell’era del web 2.0 (razzi e mazzi, vette e muli).

Do ufficialmente i numeri.

Questo audioblog registra in media 24 visite al giorno dal maggio 2011, per un totale di ventiquattromila e spingi accessi. Così anche dal 16 aprile dell’anno scorso ad oggi, data dell’ultimo post: quel VALE PECUNIA che proponeva una libera donazione.

Nell’arco di quest’anno il blog si è preso una pausa (…ho avuto un po’ da fare in giro), ma ha registrato 3.718 graditissimi ospiti. Di questi ben quattro si sono dati all’azione, facendo valere la valida e mai vile pecunia a mio sfacciato favore, donando la somma complessiva di ventisei euro (26,00€) esentasse, puliti.

Il successo può dare alla testa.

Il dato mi esalta e mi incoraggia a continuare. Non so se mi spiego: ben quattro persone mi hanno donato in media 6,5 gocce del loro sangue in un anno, il che è tantissimo e tra poco ne dimostro il motivo. Ma prima è il turno della lettura odierna, perché si ricomincia (avrei ricominciato comunque) e arriveremo fino in fondo; e guarda caso, questa di oggi si intitola proprio Riconoscenza.

Coltivatori/macellatori.

Visitatori (da aprile 2013 ad aprile 2014): 3.718
Donatori: 4 (eroici, fantastici: grazie!)
Provenienza: Fidenza, Brescia, Bologna e Bibbiena.
Ricavo totale: 26,00€
Media per donazione: 6,5€

Per ringraziare i miei quattro lettori preferiti ho una piccola sorpresa. Vorrei risparmiare loro la fatica dell’occhio sullo schermo quindi tutto il testo che segue, se desiderano ascoltarlo, glielo leggo. Ovviamente potrà ascoltare chiunque, ma è grazie a loro.

Accendo un microfono casalingo, proprio qui, adesso, e comincio. Il risultato audio è un po’ grezzo, si sente: un piccolo presente, ma sincero. (Anche questo file è su Soundcloud). Click su play e buon ascolto.

Meglio del Manzoni.

Fantastici Quattro. I miei quattro eroici lettori superano nel mio affetto i venticinque famigerati del Manzoni; lui ci si faceva dell’autoironia, io lo dico sul serio: grazie davvero. I miei quattro lettori attivi mi hanno donato in media più di sei euro ciascuno. Significa che se fossi riuscito a convincere anche solo un terzo dei tremilasettecento della bontà del mio lavoro, al punto da indurli spontaneamente ad offrirmi un caffè pari a questo (con cappuccino spremuta e cornetto), il mio ricavo su questo fronte sarebbe stato di seimila euro (6.041,75€), pari a cinquecento euro (503,47€) al mese. Una bella sommetta, che avrebbe validamente sostenuto i miei normali sforzi di sbarco del lunario in attività varie, non tutte artistiche, che sottraggono necessariamente parte del mio tempo a queste.

Sognare è gratis, abbondiamo.

E se fossi stato abbastanza bravo da convincerli tutti? In fondo stando al dato di realtà, con questa media, si tratterebbe di circa cinquanta centesimi al mese per ogni lettore (fatevi il conto). Non è impossibile, anzi: secondo me ci stai già facendo un pensierino anche tu. Intanto continuo con la mia sognata alla grande… Dunque, se tutte le tremilasettecento persone avessero mantenuto questa media, io avrei tirato su la bellezza di ventiquattromila euro (24.167,00€) in un anno: duemila euro al mese. Così: autonomamente, senza patrocini, vassallaggi, assessorati politici in conflitto aperto coi congiuntivi, senza fondi pubblici crestati come vette alpine da spendere in …qualcosa tanto per dimostrare che si è fatto qualcosa, che poi passata la festa gabbato lu santo.

Un anno da leone.

Se tutti gli avventori di questo locale virtuale facessero come i miei quattro idolatrati lettori, e lasciassero la bellezza di cinquanta centesimi al mese nel porcellino, io camperei benone, del mio lavoro, onestamente, liberamente, col frutto del mio ingegno (il che, per quanto malvisto in Italia, non mi pare sia ancora reato). Ok, magari solo per un anno, …ma che anno! E per il prossimo vorrà dire che mi sbatterò ad inventarmi qualcos’altro. In fondo, questo è il mio lavoro.

Il grido di battaglia.

Tutto ciò rinsalda la mia ultima certezza ideologica residua, riassumibile nel grido di battaglia: “è la somma che fa il totale” (cit.: Totò). La somma degli atti degli individui fa il totale dell’umanità in una data area geografica. Sono i singoli individui che decidono che mondo debba essere questo. Nessun altro al loro posto. Partiamo da un esempio alto ed illustre come si conviene ai discorsi sui blog. Partiamo dal cesso. “Lascia questo posto come vorresti trovarlo”.

Falla fuori.

L’ho letto più di una volta ed è saggio. Molti pensano che la piega del mondo dipenda dai marziani, da Paperon De Paperoni, dalla Banda Bassotti… riuscendo così a deresponsabilizzare ogni propria scelta. Così non scelgono, o peggio: scelgono il peggio. La fanno di fuori. Non si danno pena di centrare il buco, anzi annaffiano la ciambella e gli angoli del piastrellato con un misto di risentimento e di rassegnata disperazione, quando potrebbero semplicemente non farlo. Il cesso di mondo dipende proprio da loro. Come tutta la letteratura dipende da chi ha in mano il testo in quel momento. Non se ne accorgono, non vogliono crederlo, non si rendono conto di quanto dipenda da loro, da un singolo, dalla scelta di un istante e dalla responsabilità di ciascuno. Di come tutto sia reciproco: il mondo che incontri è il mondo che crei. Non se ne rendono conto. Quindi non cambiano un gesto, non prendono la mira, non muovono un dito, nell’attesa che sia qualcun altro a farlo. Ti diranno che uno non serve a niente, uno è troppo poco. Non credo. Ad esempio non rinuncerei ad uno solo dei miei quattro impavidi lettori che centrano il buco. Per me ognuno di loro è il mondo intero.

…Perché?

Per un banalissimo ed elementare motivo: una è la vita. One shot. Uno è l’istante trascorso nel tempo in cui l’hai detto, tramontato in eterno. Ognuno di noi sceglie, agisce e scompare. Un attimo. Poi tocca all’altro. Che mossa farà? Sta a lui. Il mondo in ogni preciso momento è la somma algebrica di questo processo numericamente complesso, che per il singolo si riduce e semplifica nel risultato netto di: uno.

Tutti per uno, uno per tutti.

I miei quattro moschettieri hanno deciso che questo può essere un mondo in cui un tale può agire la cultura al di fuori delle accademie e delle logiche da quattro soldi del potere in questo ridente paese e che, se lo fa bene, con disciplina, a regola d’arte, o se torna utile o semplicemente ti distrae per un’oretta o due, quel tale (che potrei essere io) è degno di ricevere da me (che potresti essere tu) un riconoscimento economico anche solo simbolico, a totale discrezione del prossimo. Ed è bellissimo.

La somma che fa il totale.

Somma tremilasettecento riconoscimenti simbolici in un anno e hai cambiato la vita di chi si è messo in gioco rivolgendosi direttamente a te, individuo dall’altra parte dello schermo, scavalcando inchini, vassallaggi, lottizzazioni, vecchiumi, immobilismi, pregiudizi, cialtronaggini e tutto il ciarpame di cui si ricopre la cultura italiana da secoli.

Bene, per farla breve. Io avevo qualche idea e una serie di mezzi. Li ho usati. Questo è quanto. Quei quattro lettori hanno deciso di cambiare il mondo e, per quanto mi riguarda, lo hanno fatto. Commosso li ringrazio. Io continuerò a farlo in un modo o nell’altro per tutto il resto del mio tempo. Anche tu puoi farlo, in qualsiasi momento.

Grazie.

VERSI VACANTI

Ricordi  LA PREDA? “La preda che si raggira / nel vacuo…”. Eccola qui r-aggirarsi ancora, nell’arco di questi brevi versi che se non risalissero alla metà degli anni Ottanta sembrerebbero scritti per Twitter.

Sarà quella stessa preda (la Bestia) che qui raggira ancora sé stessa nel vacuo; nel vuoto di questi versi vacanti (mancanti). Versi che stanno fuori dal LIBRETTO e da LA MUSICA e si incontrano solo qui, quasi in prossimità dell’uscita, nella sezione ALTRE CADENZE.

Versi che non sapevano bene dove andare (vacanti come vaganti?). Versi che hanno tutti qualcosa a che fare con l’andare.

Un paio di note lessicali prima di proseguire.

…Si aggira? …Raggira? …Si raggira!

Caproni scelse magistralmente l’espressione “si raggira nel vacuo” al posto di un generico “si aggira…” conferendo all’azione una specularità straordinaria di significato, attraverso la semplicità estrema di una consonante: la preda non si aggira… E non r-aggira solo chi la sfida: essa è imprendibile a sé medesima, inganna la propria forma per prima; la preda (la Parola, come vedemmo allora) è fatta di nebbia. Si r-aggira. Ma qui la Parola sembra scomparsa (vacante) e si direbbe quasi che si stia parlando d’altro… Alla fine del viaggio. Che la Bestia sia la Vita? Che sia già quasi finita?

In piena disperanza.

Disperazione, no. Speranza nemmeno. Di-speranza: neologismo caproniano tra i più felici, orecchiabili e profondi. La disperanza che rende allegro il “povero negro”, in una cadenza che qui assume i colori del blues.

RAGGIUNGIMENTO.

…Dove vai Giorgio?!
…Non lo vedi che l’erba finisce lì?

PAESAGGIO.

LA VIPERA: LA VITA. Si guardano, si identificano quasi, si equivalgono, si annullano. Come tutto ciò che in Caproni è doppio. Il doppio in Caproni non si somma mai: si elide, casomai.

ALL LOST.

Qui la voce “disperanza”. Un blues di una sola stanza.
Mi ricorda una canzone di un amico… Pavese Cesare o Bezzato Gianrico.

VISTA.

Si naviga, a vista. Verso dove. Verso il confine. Oltre  il confine? Il confine del verso? L’ultimo dei luoghi non giurisdizionali caproniani, sta per arrivare davvero, adesso. Qui Caproni dice: “guardo davanti a me”. Incipit immortale. Talmente assoluto che pare banale.

Chi sgama un Leopardi ci vede giusto.

Quando in versi qualcuno dice di guardarsi davanti, l’occhio vede immediatamente di dietro e nella tradizione italica spunta immancabilmente Leopardi, la siepe e l’infinito assaporato per contrasto. E guarda caso: …anche in quel frangente ricorreva il termine vago. Ma ai tempi di Leopardi il vago non risuonava di vacuo, solo di indefinito: il vago non era ancora del tutto vuoto.

Cosa vedi Giorgio?

Ecco dunque a noi uno sguardo contemporaneo sul nulla davanti: un albero comune e solitario. Un fiume indefinito che scorre (all’infinito), si presume verso un suo estuario. Un cartello, primo segnale umano, chiaro, comunicativo: una scritta! …e infatti è nebuloso (nella sua pretesa di chiarezza informativa), dal tono prosaico. Pubblicitario? Un messaggio talmente inutile che rasenta il beffardo.

La parola serve. Praticamente a niente.

Che vuol dire? Solo il confine, è detto, per adesso. Non che di più sia mai dato sapere. Lo sapevamo già. Staremo a vedere. Di certo qui, a parte il verso, non ci si finge più niente; e neanche naufragare sembra dolceE si ricorda il suono, l’eco di un ultimo sparo, come di ritorno da quella caccia ormai lontana che ora risuona un po’ goffo: …solo un ultimo, quasi patetico, tiro di schioppo.