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60 – IL NOME

Eccolo, preso di petto: come davanti allo specchio. Il nome. Che cosa resta, prima o dopo il nome (è lo stesso) di noi? Nei nostri ricordi di individui singoli e irripetibili restano migliaia e migliaia di frammenti vaghi; centinaia di ore nitide; qualche decina di giorni netti, i nostri più memorabili eventi. Il prato apparentemente sempre verde del presente, a tratti affollato di gente.

Nel ricordo dei conoscenti saremo una nube vaga di gesti e di voce, di sguardi, movenze; magari di cose dette al volo in un bar, chissà quando. Dove.

Nel ricordo dei figli saremo una costellazione di atti con una voce da sentire mai più e forse decine di episodi, di segno diverso, vissuti in condivisione, irradianti sentimenti pungenti. Uno sciame di gesti precisi e dettagli del corpo, insignificanti per chiunque al mondo non sia nostro figlio.

Se mai avremo nipoti, saremo racconti sbiaditi per lo più di seconda mano, narrazioni di altri; racchiusi in una manciata di dettagli che restano netti giusto il giro di una vita. Mio nonno ha fatto due guerre, mi raccontava le fiabe ma io volevo sapere delle battaglie. Mi preparava il latte al mattino e aspettava con me il pulmino giallo della scuola sulla strada polverosa. Aveva occhi azzurri d’acqua e nessun dente in bocca. Poi è sparito in un letto d’ospedale. Rannicchiato come una larva.

Larva. Qualcosa che nasce e dà vita. Ma etimologicamente anche il fantasma (nella sua accezione latina).

Oggi io porto il suo nome (Giovanni Succi) e la sua larva, sono l’ultimo depositario del suo fantasma. DI quella persona che al mondo per me fu mio nonno. Padre di mio padre. Di tutto quel che lui fu, oggi resta questo. Un nome. Una icona. Che sono io, per ora. Ancora per poco. Una mezza vita.

Farò come lui la stessa fine. Ammesso che io abbia mai nipoti.
Di noi (eroi e figuranti: tutti a prescindere dai ruoli, noti o ignoti nella storia) questo resta. Un nome. Una icona. Che alla fine divora tutto quel che siamo stati in vita. Siamo stati la persona? (Qui l’etimologia suggerisce un personaggio, un’altra maschera). L’icona ci inchioda a pochi dati. Con maestria infinita Giorgio Caproni questa icona, a sua volta, la inchioda (le si ritorce contro, ci prova) così: FAMELICA.

Come la bestia.

14 – CERTEZZA

LA FRANA” introduceva la Bestia, ed era la sua ora (nella poesia L’ORA ci diceva esattamente quando, dove e come fare per prenderla). “CERTEZZA” introduce la Preda (…un altro “io” della Bestia) che darà il titolo al componimento successivo. Un gioco di simmetrie perfette va delineando (con la chiara certezza di non poterlo fare) l’oggetto della caccia. E ci rassicura nell’incipit: cadrà.

“Spara!”… e poi? L’unica certezza è che “cadrà”.
Chi cadrà?
A che cosa stiamo dando la caccia?
Facile: …alla Bestia. Alla Preda.

La poesia caproniana, smontata pezzo per pezzo, è sempre un apparato semplice; così apparentemente chiara da inibire quasi il commento. Eppure. Proprio la sua complessità reale in alcuni frangenti, come questi, tra i preferiti dal sottoscritto, scoraggia chiunque abbia pudore da un commento qualsiasi.

Ma noi avventuriamoci spudoratamente, ascoltiamo senza la smania di afferrare subito, tutto. Incassando la promessa onesta che tutto apparirà chiaro presto, tutto a portata di mano. Apparentemente.

Ho fiducia che la lingua italiana non sia ancora impoverita al punto da privare il “pubblico-del-web” (?) del gusto dei giochi verbali spiazzanti, fulminei, paradossali e speculari nei quali Caproni è maestro (“ti uccide uccisa”: cioè che dopo averla uccisa ti accorgi che ti ha ucciso lei; e però proprio questa morte ti “risuscita”, ti rende nuovamente vivo o, letteralmente: ti suscita di nuovo).

Ho fiducia che la lingua italiana non sia ancora impoverita al punto da lasciare troppo spaesati altri, tra i meandri di costrutti più complessi (“la preda che infallibilmente centrata /[…] /vedrai scappar via”): nodi apparenti, in realtà presto sciolti.

Se la lingua fosse impoverita, voi arricchitela di nuovo. Con fiducia.
Dietro il poco fumo delle canne dopo lo sparo, tutto torna presto chiaro.

Tutto si dipana perfettamente in Caproni, il più onesto dei poeti del Novecento. Se alcuni passaggi possono apparire ardui, difficili al primo ascolto, semplicemente concedete loro un ascolto in più: non vi deluderà mai dal comprendere perfettamente il senso del verso, parola per parola.

Una musica contemporanea che resta tonale: sentenza perfetta, devo averla letta, non ricordo dove.

Ma dove tutto è chiaro, niente è chiaro. Esattamente dove colpisci sai di perdere. Quando com-prendi non prendi niente. Dove miri e centri sai di fallire. Dove tutto sembra afferrabile, agire è fallire. (Fallire è cadere: …”cadrà”). Eppure siamo tutti intenti in questo: mirare, colpire, afferrare, definire (finire), comprendere, acciuffare.

La bestia, la preda. La parola?
L’arco del tempo di una vita intera?

Cadremo.
La certezza è: cadremo.

Buona caccia.

12 – LA FRANA

Anche se non esisteva la Bestia c’era.

La valenza macrotestuale (quella di un poema narrativo) è in questo tratto ancora evidentissima: ci porta a seguire passo passo le mosse dell’io narrante, composizione dopo composizione.

Eccolo qui uscire dalla tana dell’osteria, dove l’avevamo lasciato quasi del tutto in preda al buio, scisso da un’ultima lama di luce; eccolo ora nuovamente all’esterno, a guardarsi intorno. Il paesaggio oscuro. L’annusa, come una bestia. Linciaggio, alluvione, frana. L’agire umano appare un “ponte” perennemente gettato tra slanci estremi di segno opposto, tra un Flauto Magico a Vienna e un Terrore a Parigi. (Il Flauto Magico di Mozart tornerà ancora, lo ritroveremo più avanti).

Per ora ci basti la visione di ciò che ci circonda: il paesaggio (“in ogni dove).

Che cosa preme così forte? L’effetto è visibile o “annusabile” al buio: la frana dello scenario umano. Il Terrore, la “frana della ragione”: …nostra condizione permanente? (Con allusione ai fatti della Rivoluzione francese e all’esito tragico della stagione dei Lumi). Siamo noi? Accade forse per effetto di altro, come un flagello, come una Bestia che infesta la campagna?

Non stravedeva, il Conte. Illuminatissimo. Il calcolo era il suo forte.
Anche se non esisteva, la Bestia c’era.

11 – LA LAMINA

Ricapitolando: il nostro anonimo io narrante (uno dei tanti, forse il principale), in tre sole mosse si è lanciato nella mischia, nella macchia; si è fiaccato per nulla, neanche la minima traccia; ha rinunciato alla caccia, rinnegandone il fine, dubitando di tutto.

Nel brano precedente lo abbiamo visto rientrare all’osteria, da dove adesso ci parla.

Nella poetica caproniana l’osteria è un luogo ricorrente; il luogo che accoglie, solitamente. Ma come sempre la moneta del maestro ha due facce. Basta indagarne l’etimologia. Quella di oste, come spesso accade, è doppia e ambivalente. HOS è la stessa radice di ostile (HOSTE latino era forestiero e quindi “nemico”; andare ad oste, era l’antico francese e provenzale per l’andare in guerra. Da cui per esempio osteggiare). E infatti l’osteria, il luogo del rifugio, completamente buia: l’osteria sta per diventare un ambiente ostile.

Nel nero, un fendente di bianco l’attraversa, lentamente ma a vista d’occhio. La poesia, giocata su pochissimi semplicissimi elementi, sembra andare al rallentatore. Un solo appiglio di luce, bidimensionale, affilatissimo, una lama di luce che filtra da una tenda (battente: verbo – lo vedremo – straordinariamente allusivo in Caproni: battente è la rima), taglia chirurgicamente in due l’ambiente. Taglia in due anche il soggetto, che fin dai primi versi si siede (leopardianamente), accanto a sé stesso. L’intonazione è definitivamente lirica (in poesia si dice lirica la poesia che ha per tema l’io del poeta).

In chiusura, negli ultimi versi, quando il buio sta per essere totale (lo sarà solo dopo gli ultimi punti di sospensione), ritroviamo l’io totalmente diviso anche negli effetti del suo sentire. L’orgasmo diverge in un pianto (si noti: divertito). L’eco (quello lirico, del fare poetico) è ironicamente abbassato a quello di una minuettante uccelliera. (Rimanda a modalità barocche: …forse le fittizie arcadie di chi ci aveva introdotto all’operetta a brani?)

Questi dati confortano, per quel che durano: quanto una lama d’acciaio e di luce che sta per svanire nel nero di una stanza? Andata. Ormai è buio.

La sera caproniana non è mai consolatoria.

10 – DISPETTO

La resa si traduce in atti: stizza, sfiducia, negazione.

Lo scenario, da aperto (i campi, la macchia) si fa chiuso: l’osteria.
Il nostro “io” rientra, si disarma.

Il Conte stravedeva?
Stravedere: verbo ambiguo.
Significa ovviamente sbagliarsi nel vedere o perdere di lucidità nella vista.
Ma smontandolo in due (stra-vedere) può rendere l’idea del vederci benissimo.
L’errore del Conte è quello di avere stra-visto?

09 – INVANO

Primo passo, prima resa.
L’esito di tanto euforico accanimento non lascia dubbi, a partire dal titolo.

Uno dei nostri “io” è partito di slancio: è già esausto.
Dove ha cercato fino a sfiancarsi?
Ecco i luoghi: “la rete/fitta dei campi”, “l’intrico”, la “macchia”.
Scenari iperrealistici dei luoghi caproniani.
I suoi luoghi non giurisdizionali, così, con questa formula, sovente indicati.

Luoghi tridimensionali?
Luoghi bidimensionali (…reticolati, campi, macchie)?

In ogni caso nessun segno: non la minima “traccia”.

08 – PRONTO EFFETTO

Azione. Entriamo nel vivo. L’AVVISO ha convinto tutti. Cacciatori e uomini d’arme, a quanto pare, non vedevano l’ora. Non si sono fatti pregare.

Alle parole “sangue”, “assassinio”, “uccidere” si accostano – si affrontano: una di fronte all’altra – le sapienti rime in “-ia” e “-anza”. Risuona assente una dantesca “baldanza”, nel segno arcaico del più autentico slancio. Se la Bestia fosse un animale, sarebbe presto presa.

Con questo slancio comincia ogni impresa?
Anche quella di chi compone?
Anche quella di chi nasce al mondo e vive?

Un copione fisso: …un rito liturgico?
(Etimologia greca di “liturgia”, letteralmente:  “azione del popolo”)

Corriamo ad uccidere la Bestia.