Etichettato: musica

GALANTERIE

A RINA

Nella storia di Giorgio Caproni c’è una donna di nome Rina. Sua sposa.
Nella storia di Giorgio Caproni c’è un amore di nome rima. Sua rosa.
Senza di loro niente sarebbe quello che è. Quello che è, sarebbe niente.
Rime ricche, si dicono in gergo tecnico: Rina/rima; come albero/albero.

INTERROGATIVO

Le cime più alte del pianto menano a qualche cosa?

CITAZIONE

Come anche piangere a lungo in solitudine?

I BACI

Le capitali rase (risentite nel secondo dei Tre improvvisi sul tema la mano e il volto) qui nelle Galanterie tornano a dispensare baci da cartoline.

DUE MADRIGALETTI
I – Appassionatamente.
II- Sempre con cuore.

In Galanterie la musica è musica leggera virata in ironia. Il rapporto tra nome e corpo risolto in canzonetta. Ma dentro c’è tutto. Compresa la fine, il trapasso. E l’ignoranza innocente di un sasso.

MARTINA

(alla Signora Bianca d’Amore). Se qualcuno sa cosa sia il marratano, lo dica.

LAUDETTA (a Rina)

Le Galanterie si aprono su Rina e si chiudono su Rina.
Rina la donna, la sposa, la madre, l’amica, la base, la vita.
La sola giusta parola: la rima.

In Res Amissa (la raccolta postuma) troveremo ennesime dichiarazioni d’amore come questa, PER L’ONOMASTICO DI RINA RIBATTEZZATA ROSA:

[…] Mia rosa sempre in cima
ai miei pensieri…
Mia rima
sempre in me battente…
Fonda e dolce…
Quasi
– in me – flautoclarinescente.

Ed era sempre e ancora musica.

62 – SMORZANDO

Così va il mondo. Tre giorno dopo, una pagina dopo… tutto è lontano. Il suono del mondo è smorzato. La MUSICA del libretto dissolve in uscita. L’operetta è finita. L’ultimo brano sfuma. Le ultime scintille alzate dal vento la notte, sulle creste montuose remote, le abbiamo intraviste. Qui finisce.

SMORZANDO è un modo musicale. L’orchestra suona ma scende di dinamica, in punta di piedi. Si allontana da sola dalla scena sonora. Resta fermo chi ascolta. Lei se ne va.

Allude a tutto un restante trambusto sonoro (rumore) che riguarda già altri: …altro da fare, da dire, inseguire…

Lontano si spara, si lotta, si ama… Si intuiscono altre generiche scene di caccia. Si intuiscono come? Al soffio del vento del tempo; il tempo soffia, ha un suo vento. Vento del tempo tra le foglie sonore (come nell’Infinito leopardiano).

Vento e tempo che porta.

Vento e tempo che soffia.

Vento e tempo che passa.

(…E quasi orma non lascia.)

Silenzio.

58 – TRE IMPROVVISI SUL TEMA LA MANO E IL VOLTO

Premessa, verso la fine.

I TRE IMPROVVISI sono un preludio alla fine. Del poema. Ragionevolmente anche di chi lo scrive. Giorgio Caproni nel 1986 è un uomo di circa 74 anni, eppure è al culmine della propria lucidità compositiva. Un distillatore straordinario che ha ancora qualcosa da aggiungere, di ulteriormente complesso dal punto di vista poetico e filosofico, al proprio percorso di autore. Non esiste altro versificatore italiano del Novecento di cui si possa affermare altrettanto. Mi si corregga se sbaglio.

L’ultima opera composta in vita, Il Conte di Kevenhüllernon è una variatio ossessiva di temi già emersi (tesi di alcuni critici), ma il punto più alto, la summa e il superamento di mezzo secolo di Opera caproniana. I temi e gli elementi di una vita di versi tornano, è vero; ma tornano variati, ridistillati in purezza, magistralmente rimodulati, implementati e drammaticamente (o ironicamente) rivolti ad un fine diverso e ulteriore: un passo nell’oltre, proprio là dove il dove non esiste. Nessuna epifania estatica. Nessun oltre-mondo si palesa minimamente mai. Solo un oltre-tempo, un oltre-istante. Perché quell’istante c’è, esiste e attende: la nostra uscita dalla Storia (cieca, sorda e inutile, mai capitalizzabile) esiste già. Quell’inesistente mare per il quale ci si appresta tutti da sempre a salpare. Un oltre caproniano, nero, zitto, assente, vuoto, senza Madonne o Beatrici ad attendere l’uomo, senza stelle a orientare il cammino: …il cammino non c’è. La meta è perdersi.

Dunque con questa raccolta Caproni tentava l’intentato: forzare le proprie stesse sentinelle e guardiani e guide e buttarsi a capofitto nei suoi stessi e famigerati luoghi non giurisdizionali. Nei campi, per i quali si era detto fosse inutile andare avanti. Questa è la sfida tematica e linguistica (ardua, da Dante in Paradiso) che in quest’opera il suo verso prova a dire.

I commenti che seguono a questi passi non sono affatto esaustivi e per di più son scritti di getto; ho ricercato la sintesi ma non sempre ci riesco. Vedo tutti i miei limiti. Pace. Prima della fine del mondo ci sarà pure un occhio disposto ad arrivare alla fine del foglio. Se c’è, bene, ho scritto per lui. Se no è lo stesso: felicemente la mia fatica non ha senso; spero però sempre di meritare la preziosa fatica altrui.

Buona lettura e buon ascolto.

L’erba si è fatta magra

Nell’incipit del primo di questi tre “improvvisi” (figura musicale in Shubert, Chopin…), risuona uno dei più famosi componimenti caproniani: L’ultimo borgo, del 1976, ne Il franco cacciatore. Circa un decennio prima, quel componimento si chiudeva così:

“[…] L’ora / era tra l’ultima rondine / e la prima nottola. // Un’ora / già umida d’erba e quasi / (se ne udiva la frana giù nel vallone) d’acqua / diroccata e lontana.”

Dissolvenza al nero e rumore.

Nel ’76 finiva così: l’immagine usciva dall’osteria e si sprofondava nel buio lontano di un altro di quei tanti torrenti a fondovalle, che fanno da sempre lo stesso rumore; quel rumore eterno ed immutato dell’acqua sui sassi che fa sovente da bordone a molti versi caproniani.

Il sonoro in Caproni.

Una delle tante “sole risposte” ai dubbi umani, alle apprensioni, alle paure: rumori vicini o lontani come il cigolio di certe porte, il rimbombo nella notte degli androni, il fischio dei freni, ingranaggi di ascensori, scatti di serrature, cani, spari, gabbiani, merli, nottole…

Rumore franante d’acqua.

“[…] L’ora / era tra l’ultima rondine / e la prima nottola.” L’indicazione dell’ora. Questo dato faceva da chiusura, maestosamente sorda e sospensiva, a suggello di una estenuante giornata di caccia. Caccia a chi o a che cosa, non era dato saperlo allora; mentre nel Conte di K. la caccia ha un oggetto/soggetto nella bestia, certo. Ma a questo punto del testo ormai è quasi notte e tutta la vicenda è quasi del tutto spenta, evaporata in nebbia. Di bestia neanche più si parla.

Oltre non si andava.

Quella caccia di allora (ne L’ultimo borgo del ’76) sapeva di reminiscenze di un vissuto bellico, sapeva di rastrellamento. Lasciava immaginare un giallo, una storia di spie, una guerra civile… Una vicenda fiaccante in cui, di ricercati e segugi senza volto, non sappiamo niente, che finisce in niente: …le loro stanchezze, le loro teste vuote, all’osteria di un ultimo borgo. Fuori solo rumore buio. Poi la fine del testo. Poco più in là c’è la fine del mondo. La fine della giurisdizione. Nessun altro dove. Rumore cieco di acqua scoscesa e franante in un vallone. Oltre non si va. Oltre non si andava. Sarà il caso di rileggerla tutta la cronistoria di quella giornata.

(Lettore, se non ne hai voglia adesso, salta al passo successivo e vedi il capitoletto Oggi, che ora è. Ma, lo sconsiglio. Prenditi il tuo tempo. Quando puoi).

L’ultimo borgo (1976)

“S’erano fermati a un tavolo / d’osteria. // La strada / era stata lunga. // I sassi. / Le crepe dell’asfalto. // I Ponti / più d’una volta rotti / o barcollanti. // Avevano le ossa a pezzi. // E zitti / dalla partenza, cenavano/ a fronte bassa, ciascuno / avvolto nella nube vuota / dei suoi pensieri. // Che dire. // Avevano frugato fratte e sterpeti. / Avevano / fermato gente – chiesto / agli abitanti. //”

Pausa. Il tempo di notare come l’azione cominci dalla sosta, (“S’erano fermati…”) e poi riporti alla strada percorsa. Il tempo di notare le scelte terminologiche mai enfatiche: il neutro “rotti” dove un altro avrebbe forse detto drammaticamente distrutti. Rompere i ponti (col passato, con qualcuno) è anche modo di dire corrente: quello che Caproni sceglie.

“Ovunque / solo tracce elusive / e vaghi indizi – ragguagli / reticenti o comunque / inattendibili. //”

Altra risonanza nettissima tra Il franco cacciatore Il conte di K.: ricorda la chiusura di INVANO, all’inizio della nostra caccia, che diceva: “[…] // Dovunque, / col cuore che mi scoppiava, / non scorsi la più piccola traccia.”
Riprendiamo:

Ora / sapevano che quello era / l’ultimo borgo. / Un tratto / ancora, poi la frontiera / e l’altra terra: i luoghi / non giurisdizionali. // “

(Grassetto mio). Poi la chiusura già letta:

“L’ora / era tra l’ultima rondine / e la prima nottola. // Un’ora / già umida  d’erba e quasi / (se ne udiva la frana giù nel vallone) d’acqua / diroccata e lontana.”

Oggi, che ora è.

Bene, un decennio dopo circa, l’ora s’è fatta ancora più tarda. E ancora più certa. Il Giorgio che scrive oggi ha superato la settantina. Dice semplicemente: “è l’ora mia”. Incipit straordinariamente vero e capitale, come una sentenza o una pena.
E sia.

Erba spontanea ovunque.

Infatti tornano tutti i suoi elementi più cari, quelli che tornano in tutta l’Opera dell’autore come strumenti o chiavi di note o accordi ricorrenti, Spontaneamente. Come spunta sempre l’erba nei campi.

Afterhours.

L’ora romantica della malinconia” al nono verso del testo odierno suona quasi non troppo ironico. Anche il titolo dei TRE IMPROVVISI, del resto, ce lo lascia supporre, essendo prettamente romantici gli improvvisi in musica. Ma quel che conta è altro: la forza di andare verso quel confine e superarlo. La forza di passare (oltre-passare) quell’ora.

Si passa il confine.

La voce dell’autore muove un passo oltre lo stop, la stazione di discesa o di posta, la frontiera, che si era sempre dato. I tanti campi e i tanti valloni che interdicevano il passaggio. Che sia questo il vero senso e la forza di tutta l’ultima opera composta in vita?

Che il Conte di K. trovi nell’inseguimento della Bestia una scusa buona per perdersi, per spingersi ancora più avanti e sfondare il confine e smarrirsi in quei campi, in quell’inesistente “dove” verso il quale l’autore non si era così apertamente e lucidamente spinto mai?

Nessuna guida o sentinella nega il passo.

La tensione all’indicibile è fortissima eppure – rigorosamente – nessuna traccia di trascendenze. Le mani ficcate nella materia del nulla come ultimo orizzonte d’attesa reale. Beata fatica in versi di un uometto rinsecchito nei suoi ultimi quattro anni di vita. Non aveva ancora scritto tutto nei circa cinquanta anni prima.

Superarsi sul proprio stesso terreno.

Oggi, verso sera, verso la fine della caccia, verso la fine del libro, verso la fine del concerto, quell’ultimo borgo, avamposto di dieci anni prima, è superato. La musica (riascoltiamola) è incredibilmente rarefatta e inafferrabile.

Caproni trova ancora forza e voce per superare sé stesso, sul proprio stesso terreno. Senza variare elementi, i suoi strumenti, il suo lessico ricorrente. L’ipotesi è che con il finale de Il Conte di K. siamo nel bel mezzo dei famigerati luoghi non giurisdizionali (formula-frase-fatta della critica letteraria caproniana); siamo nell’altra terra. Abbiamo varcato il confine; siamo dove la poesia de Il franco Cacciatore (e di tutto il Caproni precedente) si fermava. (Forse ad alcuni critici sfugge). Siamo nell’oltre.

Il gesto che annulla il mondo.

Varcato il confine ci muoviamo completamente fuori giurisdizione: dove la mente non può, non coglie, non serba. Sarà per questo motivo che il luogo (il dove), non esiste (come annunciato a chiare lettere in VERSI CONTROVERSI).

Esistono solo la mano e il volto. Coincidenza quasi beffarda con una anatomia iper-letteraria da canzoniere petrarchesco, ma qui non è questo: …piuttosto il gesto pietoso di chi chiude gli occhi al cadavere. Il gesto della mano che passa sul volto (il proprio?). Il gesto semplice, che per primo (nell’infante) e per ultimo, annulla il mondo.

“[…] una mano passa / sul volto, e annulla / città e campagne – il mare / lontano: le sue montagne.”

Il volto è il luogo.

Nel secondo dei tre improvvisi è il volto stesso ad esser diventato il luogo. Un luogo fatto volto (o un volto fatto luogo) dove la mano che passa risente (sente ancora) trame di paesaggi, di vita, di morte e di guerre (“le capitali rase”). Trame di lettere maiuscole (incipit di capitoli, capitali) e di singole esistenze.

L’acqua perde il rumore.

Si ritorni alla sezione PONTE NERO de Il franco Cacciatore. Si ritroverà anche la nottola: ma se là “[…] / (non c’era altra voce) […]“, oggi resta invece soltanto una voce che increspa il nulla come piccole onde (sonore) sull’acqua; ed è tutto ciò che resta.

L’erba è definitivamente nera (“strema l’ultimo verde”). L’arma è bianca e viene a trafiggere noi. L’acqua (per la prima volta nei suoi versi) è muta. Solo appena “…una voce che chiama” ne increspa la superficie silenziosa (…come faceva la libellula ne L’idrometra – all’inizio de Il muro della terra?). Una voce che chiama. Che cosa, o meglio, chi? Chiama il nostro nome? Sembra vicina. Che sia l’ora, della nostra esecuzione?

Esecuzione per sola voce.

Questo resta alla nostra ultima ora: una voce e il nulla. L’ora freddamente falcidia. Ad arma bianca. Dunque l‘acciaio del FONDALE nel teatrino dell’inizio, era già l’acciaio della lama che ci trapassa (il fondale della Storia). La lama (LA LAMINA?) che ci tra-passa è l’ora. In questo transito, trapassati (come trafitti, ma anche come già-passati, quindi “mai stati” – “[…] che per esser nati / non sono mai stati”), noi trapassiamo.

Opposti ugualmente in atto nel contempo, dentro lo stesso verbo, come la bestia (che “uccide uccisa”). Al presente (tempo verbale quasi onnipresente). Siamo essere e non essere insieme. Anche se non esisteva / la bestia c’era”.

Il tempo annulla e si sente solo una voce. Solo questa è la storia, alla fine. Detta con le stesse parole di sempre; quanto mai inaudite.
Con tutto quello che, sempre, resterebbe da dire.

Dissolvenza al bianco, quasi silenzio, quasi fine.

Quasi.

Entro il 7 gennaio 2013, gli ultimi quattro passi.

Esausti?

Due note fuori tempo

Fuori tempo ma non fuori luogo: un paio di annotazioni relative alla sezione MUSICA, al suo inizio, riportato qui: Strumenti dell’orchestra.

La prima nota è per sottolineare come l’attacco del primo componimento della sezione Musica abbia nell’incipit celato un accordo: “LA QUARTA di un violoncello…” (per i non musicisti: si tratta di un accordo di LA in cui risuona RE – quarto grado della scala di LA). Il sapore caratteristico di questo accordo è quello di un senso di sospensione, in attesa di qualcosa che segue… Sospensione sarà il titolo dell’ultima poesia che chiude la raccolta. La sospensione è anche una delle figure retoriche (ellissi) più ricorrenti in Caproni: quella dei punti di sospensione.

La seconda nota fuori tempo rimanda ad un altro straordinario componimento in tema musicale, costruito ad accordi: si tratta del primo dei due “svolazzi finali” de Il muro della terra (1975).

Cadenza

Tonica, terza quinta,
settima diminuita.
Rimane così irrisolto
l’accordo della mia vita?

42 – STRUMENTI DELL’ORCHESTRA

Comincia “LA MUSICA”

La sezione MUSICA si apre in quattro quarti, con un delicato preludio di quattro versi: un accordo di quattro voci, per quattro strumenti. Introduce a componimenti di tema più ampio rispetto alla caccia serrata che caratterizza la vicenda del LIBRETTO. L’operetta a brani – come la definisce l’alter-ego pseudo-arcadico Aleso Leucasio nell’introduzione al lettore – si è rivelata tutt’altro che soave… Ma a tratti si finge tale. Qui ad esempio, in questa delicata overture. Eppure essa racchiude tutto. Vogliamo ascoltarla con più attenzione?

Quattro versi come quattro voci di un accordo, quattro movimenti. Lenti e quasi statici i primi due, entrambi chiusi dal punto. Si parte dalla quarta della tonica (chi conosce la musica si accorge ben presto che Caproni non le sparava certo a caso!). Prima i bassi: violoncello e tuba.

“La quarta di un violoncello. / Quasi in eco una tuba.”

Poi ci si alza: …si alza la tonalità, si alza il timbro (ecco un flauto: …ancora quello magico di Mozart che incontrammo nel libretto?); …si alza lo sguardo: agli alberi, ai voli. Tutto in un solo verso, il terzo:

“Fra gli alberi un flauto uccello”

Speculando musicalmente ci si immagina un intervallo di terza maggiore. Ma torniamo al testo, che ci sorprende proprio sull’orlo dell’enjambement (…wiki?) dove si balza con un colpo di timpano (…oppure uno sparo?) da Mozart a Stravinskij (alla sinfonia “L’uccello di fuoco”). Dal Settecento al Novecento. Quel timpano fa fuoco: …esattamente come, all’inizio del libretto, “un colpo fredda il direttore”.

“Fra gli alberi un flauto uccello
di fuoco, che un timpano alza in fuga.”

Quel timpano dà il La alla fuga: in termini musicali (…wiki?) la fuga è una tecnica di composizione che parte da un’idea tematica e ne ricerca tutte le possibilità espressive. E con questo semplice dato si è esattamente illustrato il ruolo della sezione titolata LA MUSICA rispetto alla sezione titolata IL LIBRETTO ne “Il Conte di Kevenhüller” di Giorgio Caproni.

Le poesie saranno d’ora in avanti slegate dal tema della caccia ma ne riprenderanno alcune immagini e temi già incontrati o evocati nel libretto, approfondendone le variazioni. Come è dichiarato perfettamente (magistralmente) in questo movimento o miniatura musicale di quattro versi.

05 – FONDALE DELLA STORIA

Di palchi e teatri e orchestre e melodrammi.
Dunque di cieli di carta e fondali adorni di cosa?
Il fondale della storia (…o della “Storia”?) di matrice umana: l’acciaio.
Il fondale della storia di matrice non umana (ma di segno identico): il ghiacciaio.
Fanno da sfondo. Ci accolgono. Benvenuti.

04 – AVVISO (Emidio Clementi special guest)

La voce dell’avviso del 1792 firmato Il Conte di Kevenhüller è di Emidio Clementi, una delle voci più inconfondibili e incisive della nostra letteratura recente.

A proposito di letteratura

La letteratura di Emidio Clementi è anche viva voce nelle note dei Massimo Volume, il che per molti è risaputo. Sicuramente lo è per quanti arrivino a questo sito per collegamenti musicali. Non è detto lo sia per quanti vi giungano per sentieri letterari. Sarebbe un onore e un piacere collegarli e presentarli gli uni agli altri.

 Mondi a parte

Uno dei limiti atavici dell’italianità in tutti gli ambiti è il divisionismo cronico, per lo più in compartimenti perfettamente stagni. Chi si occupa di letteratura e dunque incontra e (solitamente) ama Caproni, ignora spesso l’esistenza di livelli contemporanei di espressione letteraria come quelli tracciati da Clementi e dai Massimo Volume, ad esempio, perché “di ambito musicale” (per altro orgogliosamente lontano dai salotti televisivi e quindi del tutto ignoto ai più). Allo stesso modo il pubblico dei concerti, della rete e dei vinili ignora per lo più l’esistenza di un maestro della parola e del suono della parola come Giorgio Caproni, ed ha imparato dai diversi gradi della scuola a diffidare (spesso giustamente) di tutto ciò che possa anche solo lontanamente suonare libresco in Italia. Magari è più propenso a conoscere campioni contemporanei di letterature anglosassoni. Forse anche attraverso artisti rock anglofoni che da ormai mezzo secolo glieli sdoganano sui palchi. Ma non divaghiamo. L’ideale sarebbe la fine degli “ambiti”, o che almeno si parlassero e (soprattutto) si ascoltassero.

 Spudoratamente

Ecco perché riferendomi a Emidio Clementi dico letteratura recente e non aggiungo specificazioni come letteratura e musica; non a caso uso un termine solo. Come non direi “la natura e la fauna”. Letteratura è (dovrebbe essere, senza il minimo pudore) il sostantivo che raccoglie tutto, l’insieme maggiore. Letteratura è ogni traccia del passaggio di un individuo nella dimensione del tempo. Non importa se nota o segno, scritto o detto.

Tracce, segni, suoni

Questa valenza ampia del termine letteratura si va perdendo ed è sfuggente al presente: la si recupera forse proiettandola al passato o al futuro remoto. Letteratura è la gazzella sulla parete della caverna, la mia lista della spesa tra diecimila anni, un poema non scritto, il discorso sgrammaticato del politico, un tweet sul web, un canto di balene, un SMS. Il non averne coscienza non lo esime dall’essere quello che è: letteratura. Traccia di un’epoca. Genere, qualità e valenza di quel segno sono dettagli che decidiamo noi ma soprattutto deciderà il tempo. Quel che preme ora – a margine di questa operazione – è il recupero orgoglioso del valore letterario di ciò che esiste come segno: fosse anche solo suono. “Oggi” è tramandabile.

 Cantami o diva

Per i miopi, i distratti e per molti degli accademici quel segno, quella traccia sta oggi solo su carta e non anche altrove (dove già stette, prima della carta). Le forme più contemporanee di letteratura vedono ovunque un guadagno di terreno di ciò che è udibile su ciò che è visibile; non che questa sia una novità sulla scena del mondo. Almeno fino a Dante e per molto tempo ancora dopo, la poesia era suono e la Musa era una.

 Non di sola carta

Le narrazioni, anche le più colte, erano orali; rime e assonanze erano ganci per le memorie che le avrebbero tramandate. L’invenzione della stampa ha consegnato la parola alla carta in modo apparentemente univoco e definitivo. Ma la parola non ha mai smesso di essere voce. Oggi che la carta è in crisi il segnale è forte e chiaro. Quei segni neri sul foglio, quei semi neri di aratri sul bianco dei campi, servono ad articolare la voce umana. Il superamento parziale o totale della carta, fenomeno in corso, apre altre strade. Di queste, la presente è una: quella del verbo che torna voce. Attraverso la facilità di diffusione e di condivisione dei mezzi: l’esempio che avete sotto gli occhi.

 Muro del suono

Raccolgo con orgoglio dunque l’adesione di un altro compositore di prose e versi come Emidio Clementi al battesimo di un progetto che ha l’ardire di riportare il verso del più grande poeta del nostro Novecento ad essere suono. Non solo.
Ha l’ardire estremo di affermare in chiaro che il suono può veicolare fenomeni di valenza letteraria tanto quanto la pagina e che il fatto che tali fenomeni siano poco noti non li rende aprioristicamente meno esistenti, validi o degni.

 Orchestrine di musica leggera

La presente impresa non nasce da programmi universitari, da circoli accademici, dai gabinetti degli assessori.., ma dalla condivisione dei backstage e dei palchi del rock d’Italia. Nasce dagli ambienti della “musica leggera” e delle “orchestrine” (per dirla nell’assurdo gergo ufficiale ancora in uso). Lo stesso Caproni in vita fu snobbato dagli ambienti letterari ufficiali proprio in quanto voce (musicale, troppo musicale, troppo facilmente musicale, troppo difficilmente musicale) fuori dal coro. Gli si imputava sostanzialmente, di essere “troppo” sé stesso. Per questo forse, impacchettato il Novecento come un altro ferro vecchio, ci ritroviamo ad ascoltare la sua parola poetica come quanto di più complesso e vicino al nostro sentire presente e al nostro sentore di futuro.

 Memento: tradire il maestro

In conclusione. Stando all’esperienza italiana, credo fermamente venuto il tempo di abbattere gli ambiti, sprovincializzare le voci, unire i mondi, dichiarare il fare letteratura senza imbarazzi, agire la cultura senza sentirsene stigmatizzati (dal momento che non lo si è sfoggiando orgogliosamente l’ignoranza e la presunzione). E’ tempo di prendere la nostra cultura e mangiarsela, bersela, farsela. Riscoprendosi orgogliosi ad esempio di lezioni di maestri quali Giorgio Caproni, che per onorare infinitamente, tradiremo sempre.

03 – CODICILLO

Ma attenzione: …da qualche parte c’è scritto ancora questo, un “codicillo” da decifrare, in corsivo e tra parentesi (chi sarà mai a lasciarlo?): “vi assista la partitura”. Insomma, fate un po’ voi. Cordialmente: arrangiatevi. Di certo il bene più caro (la paura che potrebbe salvarvi, mettendovi in guardia) nonostante tutto, non arriverà: inutile sperarla. Chi scrive (chiunque sia) non ne ha di certo.

Fine dei premaboli: il prossimo passo è l’AVVISO che darà il via alla caccia.
A chi o a che cosa, lo sapremo presto.

02 – AVVERTIMENTO

Siamo solo all’inizio e già senza guida. Il direttore freddato (fatto secco, fatto freddo) appena salito sul podio, non potrà indicarci nessuna soluzione, nessuna strada. Ci toccherà arrangiarci, fare senza. Ci toccherà aggrapparci alla partitura: almeno a quella.