Etichettato: esecuzione

61 – CATENE

7 gennaio 2012 – 7 gennaio 2013

Era mia intenzione racchiudere l’esecuzione del poema tra queste due date. L’alfa e l’omega del centenario della nascita di Giorgio Caproni.

Dissolvenza.

CATENE è il lais de Il Conte di Kevenhüller. Il lascito, il testamento. Senza colpi di scena, come in un ciclo normale, arriva alla fine. Non esattamente alla fine del libro, che proseguirà con altri testi sistemati da Caproni fuori cornice. Altri testi dei quali – lo annuncio – non mancheremo di occuparci e dare lettura fino alla conclusione dell’opera intera, in un arco di tempo indefinito, suppongo entro l’anno in corso. Ma per ammissione dello stesso Caproni, riferita in confidenza a Luigi Surdich e da quest’ultimo riportata di recente al sottoscritto (a riconferma dell’evidenza), il LIBRETTO e LA MUSICA sono la cosa. Il poema. Il resto, lungi dall’essere mancia, segue come contorno o appendice.

CATENE è uno dei testi che più lasciano il segno eppure, paradossalmente, è fatto di nebbie. Gioca sulla dissolvenza dei fulcri tematici fin qui adoperati, sulla dissolvenza stessa del verso. Eppure sul termine VERSO si batte e ribatte, tre volte, in tre movimenti precisi.

Il primo. Siamo passati dal sentimento della sera (Abendempfindung è il titolo di questa sezione) alla quasi notte, ormai imminente ma non ancora piena. Ultimi movimenti della musica. Poi: dissolvenza e fine.

Ma prima, ancora un istante al di qua di quella fine (da dove è possibile ancora raccontare l’esperienza, non dopo) ecco il resoconto dettagliato di quello che resta.

Abbiamo fatto fuori la Bestia che ha fatto fuori noi; abbiamo fatto fuori tutti quegli “io”, quei nomi. Ora faremo fuori anche quel che resta: faremo fuori i suoni.

Verso la notte. / Quando / […]

“Il vento alza ancora scintille / sulle creste” delle cime più alte delle montagne: lo sguardo punta quelle rocce e a quelle baluginanti scaturigini del fuoco. Inarrivabili, ma visibili, ancora. Altri segnali d’alta quota arrivano ora.

Verso / la pietra dura, dove / risuona il passo […]

Il sonoro non manca mai in Caproni: ecco i nostri passi sulla pietra dura, dove tutta l’erba a cui si alludeva, ricorrente nei viottoli e campi nell’arco di tutto il poema, ha lasciato posto al lichene.

[…] e cresce / solo il lichene.

La vastità e la varietà del prato si è fatta muschio che cresce e resiste (“solo”: solamente o solitario?) sulle ultime pietre.

Altro VERSO e la visione si abbassa di colpo: a strapiombo dall’alto, guardiamo il letto del fiume: il fiume è l’acciaio. Lo stesso acciaio di lame fredde che aprivano il LIBRETTO ed erano uno dei motivi ricorrenti.

Verso / l’acciaio del fiume.

Quello che ci tiene legati è fatto della stessa materia di quello che ci separa. L’acciaio delle catene; l’acciaio della lama.

Acciaio / che sa di catene…

Una lunga sospensione. Poi – dal silenzio bianco del foglio – il fulcro caldo del componimento: le braci vive del sangue! E per quanto tenaci e infiammabili siano le braci, non sono certo più fiamme. Ma scaldano ancora (termine chiave) e bruciano vive.

Di tutte le braci vive / del sangue, […]

Il fulcro caldo del testo si è fatto di ghiaccio, è già gelido nel giro dello stesso verso, in forma speculare. Specularità che come sempre in Caproni non si somma in doppio ma si elide in un vuoto.

[…] poche bacche / rosse nel gelo.

Da ultime gocce di sangue a bacche nel gelo. Quanta concretezza di immagini in versi così glaciali e radi. Quelle scintille lontane sulle creste continuano. Amori, ardori e slanci, imprese, frane, avventure e cacce… Alzate dal vento del tempo. Poi, qui, questo:

Poche / smarrite ortiche.

Quelle stesse erbacce pungenti che trovammo (in sinestesia magistrale) nell’udito dei morti (23 – OSPETTO). Il silenzio si fa più vicino.

Resta altro?
Altre riminiscenze del corpo?
Cos’altro. Oltre il silenzio.

(“…E un ricordo / – troppo vago – di vene.)

Ipotesi vaga, tra parentesi; …sommessamente.

Ipotesi che neanche si sente.

58 – TRE IMPROVVISI SUL TEMA LA MANO E IL VOLTO

Premessa, verso la fine.

I TRE IMPROVVISI sono un preludio alla fine. Del poema. Ragionevolmente anche di chi lo scrive. Giorgio Caproni nel 1986 è un uomo di circa 74 anni, eppure è al culmine della propria lucidità compositiva. Un distillatore straordinario che ha ancora qualcosa da aggiungere, di ulteriormente complesso dal punto di vista poetico e filosofico, al proprio percorso di autore. Non esiste altro versificatore italiano del Novecento di cui si possa affermare altrettanto. Mi si corregga se sbaglio.

L’ultima opera composta in vita, Il Conte di Kevenhüllernon è una variatio ossessiva di temi già emersi (tesi di alcuni critici), ma il punto più alto, la summa e il superamento di mezzo secolo di Opera caproniana. I temi e gli elementi di una vita di versi tornano, è vero; ma tornano variati, ridistillati in purezza, magistralmente rimodulati, implementati e drammaticamente (o ironicamente) rivolti ad un fine diverso e ulteriore: un passo nell’oltre, proprio là dove il dove non esiste. Nessuna epifania estatica. Nessun oltre-mondo si palesa minimamente mai. Solo un oltre-tempo, un oltre-istante. Perché quell’istante c’è, esiste e attende: la nostra uscita dalla Storia (cieca, sorda e inutile, mai capitalizzabile) esiste già. Quell’inesistente mare per il quale ci si appresta tutti da sempre a salpare. Un oltre caproniano, nero, zitto, assente, vuoto, senza Madonne o Beatrici ad attendere l’uomo, senza stelle a orientare il cammino: …il cammino non c’è. La meta è perdersi.

Dunque con questa raccolta Caproni tentava l’intentato: forzare le proprie stesse sentinelle e guardiani e guide e buttarsi a capofitto nei suoi stessi e famigerati luoghi non giurisdizionali. Nei campi, per i quali si era detto fosse inutile andare avanti. Questa è la sfida tematica e linguistica (ardua, da Dante in Paradiso) che in quest’opera il suo verso prova a dire.

I commenti che seguono a questi passi non sono affatto esaustivi e per di più son scritti di getto; ho ricercato la sintesi ma non sempre ci riesco. Vedo tutti i miei limiti. Pace. Prima della fine del mondo ci sarà pure un occhio disposto ad arrivare alla fine del foglio. Se c’è, bene, ho scritto per lui. Se no è lo stesso: felicemente la mia fatica non ha senso; spero però sempre di meritare la preziosa fatica altrui.

Buona lettura e buon ascolto.

L’erba si è fatta magra

Nell’incipit del primo di questi tre “improvvisi” (figura musicale in Shubert, Chopin…), risuona uno dei più famosi componimenti caproniani: L’ultimo borgo, del 1976, ne Il franco cacciatore. Circa un decennio prima, quel componimento si chiudeva così:

“[…] L’ora / era tra l’ultima rondine / e la prima nottola. // Un’ora / già umida d’erba e quasi / (se ne udiva la frana giù nel vallone) d’acqua / diroccata e lontana.”

Dissolvenza al nero e rumore.

Nel ’76 finiva così: l’immagine usciva dall’osteria e si sprofondava nel buio lontano di un altro di quei tanti torrenti a fondovalle, che fanno da sempre lo stesso rumore; quel rumore eterno ed immutato dell’acqua sui sassi che fa sovente da bordone a molti versi caproniani.

Il sonoro in Caproni.

Una delle tante “sole risposte” ai dubbi umani, alle apprensioni, alle paure: rumori vicini o lontani come il cigolio di certe porte, il rimbombo nella notte degli androni, il fischio dei freni, ingranaggi di ascensori, scatti di serrature, cani, spari, gabbiani, merli, nottole…

Rumore franante d’acqua.

“[…] L’ora / era tra l’ultima rondine / e la prima nottola.” L’indicazione dell’ora. Questo dato faceva da chiusura, maestosamente sorda e sospensiva, a suggello di una estenuante giornata di caccia. Caccia a chi o a che cosa, non era dato saperlo allora; mentre nel Conte di K. la caccia ha un oggetto/soggetto nella bestia, certo. Ma a questo punto del testo ormai è quasi notte e tutta la vicenda è quasi del tutto spenta, evaporata in nebbia. Di bestia neanche più si parla.

Oltre non si andava.

Quella caccia di allora (ne L’ultimo borgo del ’76) sapeva di reminiscenze di un vissuto bellico, sapeva di rastrellamento. Lasciava immaginare un giallo, una storia di spie, una guerra civile… Una vicenda fiaccante in cui, di ricercati e segugi senza volto, non sappiamo niente, che finisce in niente: …le loro stanchezze, le loro teste vuote, all’osteria di un ultimo borgo. Fuori solo rumore buio. Poi la fine del testo. Poco più in là c’è la fine del mondo. La fine della giurisdizione. Nessun altro dove. Rumore cieco di acqua scoscesa e franante in un vallone. Oltre non si va. Oltre non si andava. Sarà il caso di rileggerla tutta la cronistoria di quella giornata.

(Lettore, se non ne hai voglia adesso, salta al passo successivo e vedi il capitoletto Oggi, che ora è. Ma, lo sconsiglio. Prenditi il tuo tempo. Quando puoi).

L’ultimo borgo (1976)

“S’erano fermati a un tavolo / d’osteria. // La strada / era stata lunga. // I sassi. / Le crepe dell’asfalto. // I Ponti / più d’una volta rotti / o barcollanti. // Avevano le ossa a pezzi. // E zitti / dalla partenza, cenavano/ a fronte bassa, ciascuno / avvolto nella nube vuota / dei suoi pensieri. // Che dire. // Avevano frugato fratte e sterpeti. / Avevano / fermato gente – chiesto / agli abitanti. //”

Pausa. Il tempo di notare come l’azione cominci dalla sosta, (“S’erano fermati…”) e poi riporti alla strada percorsa. Il tempo di notare le scelte terminologiche mai enfatiche: il neutro “rotti” dove un altro avrebbe forse detto drammaticamente distrutti. Rompere i ponti (col passato, con qualcuno) è anche modo di dire corrente: quello che Caproni sceglie.

“Ovunque / solo tracce elusive / e vaghi indizi – ragguagli / reticenti o comunque / inattendibili. //”

Altra risonanza nettissima tra Il franco cacciatore Il conte di K.: ricorda la chiusura di INVANO, all’inizio della nostra caccia, che diceva: “[…] // Dovunque, / col cuore che mi scoppiava, / non scorsi la più piccola traccia.”
Riprendiamo:

Ora / sapevano che quello era / l’ultimo borgo. / Un tratto / ancora, poi la frontiera / e l’altra terra: i luoghi / non giurisdizionali. // “

(Grassetto mio). Poi la chiusura già letta:

“L’ora / era tra l’ultima rondine / e la prima nottola. // Un’ora / già umida  d’erba e quasi / (se ne udiva la frana giù nel vallone) d’acqua / diroccata e lontana.”

Oggi, che ora è.

Bene, un decennio dopo circa, l’ora s’è fatta ancora più tarda. E ancora più certa. Il Giorgio che scrive oggi ha superato la settantina. Dice semplicemente: “è l’ora mia”. Incipit straordinariamente vero e capitale, come una sentenza o una pena.
E sia.

Erba spontanea ovunque.

Infatti tornano tutti i suoi elementi più cari, quelli che tornano in tutta l’Opera dell’autore come strumenti o chiavi di note o accordi ricorrenti, Spontaneamente. Come spunta sempre l’erba nei campi.

Afterhours.

L’ora romantica della malinconia” al nono verso del testo odierno suona quasi non troppo ironico. Anche il titolo dei TRE IMPROVVISI, del resto, ce lo lascia supporre, essendo prettamente romantici gli improvvisi in musica. Ma quel che conta è altro: la forza di andare verso quel confine e superarlo. La forza di passare (oltre-passare) quell’ora.

Si passa il confine.

La voce dell’autore muove un passo oltre lo stop, la stazione di discesa o di posta, la frontiera, che si era sempre dato. I tanti campi e i tanti valloni che interdicevano il passaggio. Che sia questo il vero senso e la forza di tutta l’ultima opera composta in vita?

Che il Conte di K. trovi nell’inseguimento della Bestia una scusa buona per perdersi, per spingersi ancora più avanti e sfondare il confine e smarrirsi in quei campi, in quell’inesistente “dove” verso il quale l’autore non si era così apertamente e lucidamente spinto mai?

Nessuna guida o sentinella nega il passo.

La tensione all’indicibile è fortissima eppure – rigorosamente – nessuna traccia di trascendenze. Le mani ficcate nella materia del nulla come ultimo orizzonte d’attesa reale. Beata fatica in versi di un uometto rinsecchito nei suoi ultimi quattro anni di vita. Non aveva ancora scritto tutto nei circa cinquanta anni prima.

Superarsi sul proprio stesso terreno.

Oggi, verso sera, verso la fine della caccia, verso la fine del libro, verso la fine del concerto, quell’ultimo borgo, avamposto di dieci anni prima, è superato. La musica (riascoltiamola) è incredibilmente rarefatta e inafferrabile.

Caproni trova ancora forza e voce per superare sé stesso, sul proprio stesso terreno. Senza variare elementi, i suoi strumenti, il suo lessico ricorrente. L’ipotesi è che con il finale de Il Conte di K. siamo nel bel mezzo dei famigerati luoghi non giurisdizionali (formula-frase-fatta della critica letteraria caproniana); siamo nell’altra terra. Abbiamo varcato il confine; siamo dove la poesia de Il franco Cacciatore (e di tutto il Caproni precedente) si fermava. (Forse ad alcuni critici sfugge). Siamo nell’oltre.

Il gesto che annulla il mondo.

Varcato il confine ci muoviamo completamente fuori giurisdizione: dove la mente non può, non coglie, non serba. Sarà per questo motivo che il luogo (il dove), non esiste (come annunciato a chiare lettere in VERSI CONTROVERSI).

Esistono solo la mano e il volto. Coincidenza quasi beffarda con una anatomia iper-letteraria da canzoniere petrarchesco, ma qui non è questo: …piuttosto il gesto pietoso di chi chiude gli occhi al cadavere. Il gesto della mano che passa sul volto (il proprio?). Il gesto semplice, che per primo (nell’infante) e per ultimo, annulla il mondo.

“[…] una mano passa / sul volto, e annulla / città e campagne – il mare / lontano: le sue montagne.”

Il volto è il luogo.

Nel secondo dei tre improvvisi è il volto stesso ad esser diventato il luogo. Un luogo fatto volto (o un volto fatto luogo) dove la mano che passa risente (sente ancora) trame di paesaggi, di vita, di morte e di guerre (“le capitali rase”). Trame di lettere maiuscole (incipit di capitoli, capitali) e di singole esistenze.

L’acqua perde il rumore.

Si ritorni alla sezione PONTE NERO de Il franco Cacciatore. Si ritroverà anche la nottola: ma se là “[…] / (non c’era altra voce) […]“, oggi resta invece soltanto una voce che increspa il nulla come piccole onde (sonore) sull’acqua; ed è tutto ciò che resta.

L’erba è definitivamente nera (“strema l’ultimo verde”). L’arma è bianca e viene a trafiggere noi. L’acqua (per la prima volta nei suoi versi) è muta. Solo appena “…una voce che chiama” ne increspa la superficie silenziosa (…come faceva la libellula ne L’idrometra – all’inizio de Il muro della terra?). Una voce che chiama. Che cosa, o meglio, chi? Chiama il nostro nome? Sembra vicina. Che sia l’ora, della nostra esecuzione?

Esecuzione per sola voce.

Questo resta alla nostra ultima ora: una voce e il nulla. L’ora freddamente falcidia. Ad arma bianca. Dunque l‘acciaio del FONDALE nel teatrino dell’inizio, era già l’acciaio della lama che ci trapassa (il fondale della Storia). La lama (LA LAMINA?) che ci tra-passa è l’ora. In questo transito, trapassati (come trafitti, ma anche come già-passati, quindi “mai stati” – “[…] che per esser nati / non sono mai stati”), noi trapassiamo.

Opposti ugualmente in atto nel contempo, dentro lo stesso verbo, come la bestia (che “uccide uccisa”). Al presente (tempo verbale quasi onnipresente). Siamo essere e non essere insieme. Anche se non esisteva / la bestia c’era”.

Il tempo annulla e si sente solo una voce. Solo questa è la storia, alla fine. Detta con le stesse parole di sempre; quanto mai inaudite.
Con tutto quello che, sempre, resterebbe da dire.

Dissolvenza al bianco, quasi silenzio, quasi fine.

Quasi.

Entro il 7 gennaio 2013, gli ultimi quattro passi.

Esausti?

Una terza fuori luogo

Una terza nota per ringraziare le cinque persone che leggono questo audioblog e per scusarmi se ultimamente gli aggiornamenti sono stati più radi. La vita fa di tutto per distrarci da quel che amiamo e ogni tanto ci riesce. La bella notizia è che il Festival Internazionale di Poesia di Genova, ha invitato il sottoscritto a chiudere l’edizione 2012 con letture in onore del centenario della nascita di Caproni, la sera del 17 giugno prossimo. Un evento significativo, come lo è il fatto che la città più cantata da Giorgio Caproni non abbia dimenticato la ricorrenza centenaria di un suo figlio eterno, per quanto d’adozione. Quanto a me che avrò questo onore, sarò lì nelle vesti di un corpo parlante, una semplice cassa in carne ed ossa pulsante. Uno strumento. Un passante.

Vi aspetto.

Due note fuori tempo

Fuori tempo ma non fuori luogo: un paio di annotazioni relative alla sezione MUSICA, al suo inizio, riportato qui: Strumenti dell’orchestra.

La prima nota è per sottolineare come l’attacco del primo componimento della sezione Musica abbia nell’incipit celato un accordo: “LA QUARTA di un violoncello…” (per i non musicisti: si tratta di un accordo di LA in cui risuona RE – quarto grado della scala di LA). Il sapore caratteristico di questo accordo è quello di un senso di sospensione, in attesa di qualcosa che segue… Sospensione sarà il titolo dell’ultima poesia che chiude la raccolta. La sospensione è anche una delle figure retoriche (ellissi) più ricorrenti in Caproni: quella dei punti di sospensione.

La seconda nota fuori tempo rimanda ad un altro straordinario componimento in tema musicale, costruito ad accordi: si tratta del primo dei due “svolazzi finali” de Il muro della terra (1975).

Cadenza

Tonica, terza quinta,
settima diminuita.
Rimane così irrisolto
l’accordo della mia vita?

Appunti sull’esecuzione vocale: le parentesi

Parentesi: come tradurre nell’esecuzione vocale i contenuti che stanno tra parentesi nel testo, senza confonderli con pause o cesure del verso? Ho tentato di sonorizzare quel che la partitura riporta tra parentesi attraverso un abbassamento del tono della voce, a volte confidenziale, a volte allusivo o insinuante; a volte (come in LEI) con intenzioni che avessero il sapore di quella che in gergo si direbbe una soffiata. Una rivelazione fulminea, spifferata a mezza bocca. Da credere o no.

14 – CERTEZZA

LA FRANA” introduceva la Bestia, ed era la sua ora (nella poesia L’ORA ci diceva esattamente quando, dove e come fare per prenderla). “CERTEZZA” introduce la Preda (…un altro “io” della Bestia) che darà il titolo al componimento successivo. Un gioco di simmetrie perfette va delineando (con la chiara certezza di non poterlo fare) l’oggetto della caccia. E ci rassicura nell’incipit: cadrà.

“Spara!”… e poi? L’unica certezza è che “cadrà”.
Chi cadrà?
A che cosa stiamo dando la caccia?
Facile: …alla Bestia. Alla Preda.

La poesia caproniana, smontata pezzo per pezzo, è sempre un apparato semplice; così apparentemente chiara da inibire quasi il commento. Eppure. Proprio la sua complessità reale in alcuni frangenti, come questi, tra i preferiti dal sottoscritto, scoraggia chiunque abbia pudore da un commento qualsiasi.

Ma noi avventuriamoci spudoratamente, ascoltiamo senza la smania di afferrare subito, tutto. Incassando la promessa onesta che tutto apparirà chiaro presto, tutto a portata di mano. Apparentemente.

Ho fiducia che la lingua italiana non sia ancora impoverita al punto da privare il “pubblico-del-web” (?) del gusto dei giochi verbali spiazzanti, fulminei, paradossali e speculari nei quali Caproni è maestro (“ti uccide uccisa”: cioè che dopo averla uccisa ti accorgi che ti ha ucciso lei; e però proprio questa morte ti “risuscita”, ti rende nuovamente vivo o, letteralmente: ti suscita di nuovo).

Ho fiducia che la lingua italiana non sia ancora impoverita al punto da lasciare troppo spaesati altri, tra i meandri di costrutti più complessi (“la preda che infallibilmente centrata /[…] /vedrai scappar via”): nodi apparenti, in realtà presto sciolti.

Se la lingua fosse impoverita, voi arricchitela di nuovo. Con fiducia.
Dietro il poco fumo delle canne dopo lo sparo, tutto torna presto chiaro.

Tutto si dipana perfettamente in Caproni, il più onesto dei poeti del Novecento. Se alcuni passaggi possono apparire ardui, difficili al primo ascolto, semplicemente concedete loro un ascolto in più: non vi deluderà mai dal comprendere perfettamente il senso del verso, parola per parola.

Una musica contemporanea che resta tonale: sentenza perfetta, devo averla letta, non ricordo dove.

Ma dove tutto è chiaro, niente è chiaro. Esattamente dove colpisci sai di perdere. Quando com-prendi non prendi niente. Dove miri e centri sai di fallire. Dove tutto sembra afferrabile, agire è fallire. (Fallire è cadere: …”cadrà”). Eppure siamo tutti intenti in questo: mirare, colpire, afferrare, definire (finire), comprendere, acciuffare.

La bestia, la preda. La parola?
L’arco del tempo di una vita intera?

Cadremo.
La certezza è: cadremo.

Buona caccia.

12 – LA FRANA

Anche se non esisteva la Bestia c’era.

La valenza macrotestuale (quella di un poema narrativo) è in questo tratto ancora evidentissima: ci porta a seguire passo passo le mosse dell’io narrante, composizione dopo composizione.

Eccolo qui uscire dalla tana dell’osteria, dove l’avevamo lasciato quasi del tutto in preda al buio, scisso da un’ultima lama di luce; eccolo ora nuovamente all’esterno, a guardarsi intorno. Il paesaggio oscuro. L’annusa, come una bestia. Linciaggio, alluvione, frana. L’agire umano appare un “ponte” perennemente gettato tra slanci estremi di segno opposto, tra un Flauto Magico a Vienna e un Terrore a Parigi. (Il Flauto Magico di Mozart tornerà ancora, lo ritroveremo più avanti).

Per ora ci basti la visione di ciò che ci circonda: il paesaggio (“in ogni dove).

Che cosa preme così forte? L’effetto è visibile o “annusabile” al buio: la frana dello scenario umano. Il Terrore, la “frana della ragione”: …nostra condizione permanente? (Con allusione ai fatti della Rivoluzione francese e all’esito tragico della stagione dei Lumi). Siamo noi? Accade forse per effetto di altro, come un flagello, come una Bestia che infesta la campagna?

Non stravedeva, il Conte. Illuminatissimo. Il calcolo era il suo forte.
Anche se non esisteva, la Bestia c’era.

11 – LA LAMINA

Ricapitolando: il nostro anonimo io narrante (uno dei tanti, forse il principale), in tre sole mosse si è lanciato nella mischia, nella macchia; si è fiaccato per nulla, neanche la minima traccia; ha rinunciato alla caccia, rinnegandone il fine, dubitando di tutto.

Nel brano precedente lo abbiamo visto rientrare all’osteria, da dove adesso ci parla.

Nella poetica caproniana l’osteria è un luogo ricorrente; il luogo che accoglie, solitamente. Ma come sempre la moneta del maestro ha due facce. Basta indagarne l’etimologia. Quella di oste, come spesso accade, è doppia e ambivalente. HOS è la stessa radice di ostile (HOSTE latino era forestiero e quindi “nemico”; andare ad oste, era l’antico francese e provenzale per l’andare in guerra. Da cui per esempio osteggiare). E infatti l’osteria, il luogo del rifugio, completamente buia: l’osteria sta per diventare un ambiente ostile.

Nel nero, un fendente di bianco l’attraversa, lentamente ma a vista d’occhio. La poesia, giocata su pochissimi semplicissimi elementi, sembra andare al rallentatore. Un solo appiglio di luce, bidimensionale, affilatissimo, una lama di luce che filtra da una tenda (battente: verbo – lo vedremo – straordinariamente allusivo in Caproni: battente è la rima), taglia chirurgicamente in due l’ambiente. Taglia in due anche il soggetto, che fin dai primi versi si siede (leopardianamente), accanto a sé stesso. L’intonazione è definitivamente lirica (in poesia si dice lirica la poesia che ha per tema l’io del poeta).

In chiusura, negli ultimi versi, quando il buio sta per essere totale (lo sarà solo dopo gli ultimi punti di sospensione), ritroviamo l’io totalmente diviso anche negli effetti del suo sentire. L’orgasmo diverge in un pianto (si noti: divertito). L’eco (quello lirico, del fare poetico) è ironicamente abbassato a quello di una minuettante uccelliera. (Rimanda a modalità barocche: …forse le fittizie arcadie di chi ci aveva introdotto all’operetta a brani?)

Questi dati confortano, per quel che durano: quanto una lama d’acciaio e di luce che sta per svanire nel nero di una stanza? Andata. Ormai è buio.

La sera caproniana non è mai consolatoria.

10 – DISPETTO

La resa si traduce in atti: stizza, sfiducia, negazione.

Lo scenario, da aperto (i campi, la macchia) si fa chiuso: l’osteria.
Il nostro “io” rientra, si disarma.

Il Conte stravedeva?
Stravedere: verbo ambiguo.
Significa ovviamente sbagliarsi nel vedere o perdere di lucidità nella vista.
Ma smontandolo in due (stra-vedere) può rendere l’idea del vederci benissimo.
L’errore del Conte è quello di avere stra-visto?